Con l’incidente tra Charles Leclerc e Sebastian Vettel nel Gran Premio del Brasile la Ferrari ha toccato il punto più basso di tutta la sua stagione, e forse anche di qualcuna delle precedenti. Basterebbe il titolo della Rosea di oggi per definire quanto avvenuto: "LA PIRLATA". Lasciamo stare di chi sia la colpa della collisione, anche se chi non ha occhi ricoperti di prosciutto oppure occhi da tifoso ma che invece possono vedere perfettamente quello che è successo noterà che Vettel ha tentato un sorpasso, peraltro praticamente riuscito, in un punto quasi impossibile, ossia all’esterno della curva 3 del circuito di Interlagos dopo averne subito uno pulitissimo da Leclerc alla curva 1. A quel punto il tedesco ha tentato di tornare nella traiettoria ideale piegando a sinistra verso il monegasco ben prima di essere quasi completamente davanti, quindi quando i due erano ancora affiancati. Leclerc è rimasto dritto, sulla stessa traiettoria di Alexander Albon che lo precedeva poco lontano da lui, poi è stato spostato verso sinistra dalla manovra di Vettel ma non ha cambiato la sua traiettoria abbastanza da evitare la collisione. Ma ripetiamo, lasciamo stare di chi è la colpa: del resto la giuria pilatesca lo ha catalogato con la formula altrettanto pilatesca di “incidente di gara”, una cosa inaccettabile per un contatto a quella velocità. Meglio anche non entrare nel merito del fatto che la gomma posteriore sinistra di Vettel e la anteriore destra di Leclerc sono letteralmente esplose nel contatto: le cause di questo incredibile cedimento cercherà di capirlo chi di dovere. Quello che importa è che i due piloti della Rossa sono stati gestiti in maniera pessima: fin dall’inizio Leclerc non ha mai accettato di fare da vittima sacrificale a Vettel e lo ha già dimostrato alla seconda gara in Bahrein surclassando il più blasonato compagno di squadra e mancando la vittoria solo per mera sfortuna. Allora perché non dare gara libera fin dal primo Gran Premio, come faceva il Drake, come ha fatto la Mercedes in questi anni con Lewis Hamilton e Nico Rosberg rischiando di perdere dei mondiali, e come non ha più fatto la Ferrari dalla morte del Grande Vecchio in avanti, in particolare da quando al timone arrivò Luca di Montezemolo? Ecco perché per trovare la vera Formula 1 bisogna tornare indietro di almeno 25 anni, se non di 30 o di 35, o addirittura di 40: gli anni settanta, quando le monoposto competitive non erano solo una o due o tre come oggi ma in alcuni momenti anche sette o otto, quindi chiunque poteva conquistare un “successo di tappa” e gli ordini di scuderia, salvo rare eccezioni, si davano solo nella parte finale della stagione, per tutelare il pilota che all’interno di un team era davanti in classifica, e certe volte nemmeno quello bastava. Qualcuno ha scritto che questa non è formula noia: se ci si basa su incidenti come quelli tra le Rosse o tra Hamilton e Albon è vero, ma è la formula dove vince solo chi ha più budget e non chi ha più fantasia, vince chi ha la monoposto migliore e se qualcuno è un grande pilota ma è costretto a guidare un camion, vedi Fernando Alonso sulla McLaren degli ultimi anni, il mondiale non lo può mai vincere. Per non parlare dei sorpassi: se qualche anno fa non fosse stato introdotto il DRS sarebbero estinti, mentre i fuoriclasse degli anni settanta sorpassavano con vetture venti volte più inguidabili di quelle di oggi e che oltretutto erano delle bare ambulanti che viaggiavano su circuiti estremamente difficili e pericolosi, non come quelli di oggi costruiti al computer. I piloti di allora erano degli eroi che si battevano per avere più sicurezza in corsa ma allo stesso tempo rischiavano la vita in ogni curva, quelli di oggi sono delle macchine da soldi che se subiscono un piccolo danno si rompono immediatamente. C’è una povertà di talenti sconcertante: al contrario di 45-50 anni fa, quando non bastavano due mani per contarli, quelli di adesso si contano sulle dita, e almeno un dito avanza pure. Con un fuoriclasse come Hamilton si sa con largo anticipo come vanno a finire le cose: al contrario di alcuni che vengono appaiati al suo stesso livello lui non sbagliava da tempo immemorabile, lo ha fatto ieri speronando Albon quando la partita per il titolo mondiale era già finita da tempo. Per carità, ieri sono andati sul podio due che non ci erano mai saliti, come Pierre Gasly e Carlos Sainz, ma si tratta di un’eccezione, mentre una volta lo era molto di meno. In più, ci sono dirigenti di team inadeguati la cui gestione porta a situazioni di tensione come quella che c’è stata quest’anno tra Leclerc e Vettel e che ieri ha portato alla definitiva deflagrazione. Per non parlare dei grandi capi, che continuano a cercare nazioni altamente improbabili per la disputa di un Gran Premio, come avverrà con il Vietnam per l’anno prossimo, unicamente per cercare di raccattare milioni di dollari, invece che tutelare i luoghi storici dell’automobilismo, come Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania, una moda che con l’estromissione di Bernie Ecclestone si sperava che si estinguesse: l’anno prossimo invece verrà raggiunta la quota record di 22 Gran Premi. No, questa non è formula noia, è molto peggio. E’ formula zero. Come zero sorprese, fino a ieri. O zero neuroni, ancora prima di ieri.
E’ finita con un bellissimo abbraccio a rete tra le due protagoniste la partita di quarti di finale del WTA Premier Mandatory di Pechino tra Naomi Osaka e Bianca Andreescu. Una partita che, non è certo stata tra le più belle dell’anno tennisticamente parlando, come invece molti hanno scritto, ma che è stata piena di tensione e di emozioni dall’inizio alla fine sia in campo, con le due tenniste che hanno giocato molto a corrente alternata, fatta eccezione per il terzo set, di gran lunga il più bello, sia sugli spalti, col pubblico della capitale cinese in religioso silenzio perché sapeva benissimo di assistere al primo atto di quello che potrà essere un grande duello in prospettiva futura, e che alla fine ha applaudito fragorosamente entrambe le protagoniste avendo negli occhi l’ultimo, strepitoso game vinto da Naomi, alla quale, dopo un doppio fallo commesso sul primo match point e una risposta vincente di Bianca sul secondo, sono serviti un leggendario rovescio in salto e un ace per chiudere i conti con la sua avversaria.
Una partita che si è decisa su 3-4 errori di Bianca, la quale dal torneo di Indian Wells dello scorso marzo ha fatto vedere di essere impermeabile alle emozioni e senza timore reverenziale nei confronti di chiunque, specialmente ai trionfali US Open (ne sa qualcosa la più forte tennista di tutti i tempi, Serena Williams), e che invece ieri nei momenti cruciali ha sofferto la tensione più della sua avversaria, che ha iniziato completamente paralizzata dal terrore ma che poi ha decisamente cambiato marcia mostrando per lunghi tratti il suo tennis migliore, che non si era quasi mai visto dal successo agli Australian Open dello scorso gennaio. Una partita che può essere l’inizio di una rivalità storica tra due tenniste il cui contrasto di stili è evidente.
Da una parte Naomi, la più formidabile picchiatrice del circuito femminile (a parte Serena), dall’altra Bianca, che non è solo una picchiatrice ma una ragazza dal gioco estremamente vario, fatto anche di slice, chop, palle corte mortifere e discese a rete, con l’unico vero, grosso punto debole che si è ben evidenziato ieri e che è costituito dal servizio, la cui prima entra in campo troppe poche volte e la cui seconda è spesso troppo tenera consegnandosi alle risposte delle avversarie e, quando viene tirata forte quasi quanto la prima, altrettanto spesso porta al doppio fallo. I punti deboli di Naomi sono invece la pochissima varietà tattica e l’approccio qualche volta troppo preoccupato al match, che ieri col passare dei minuti è però riuscita a superare, forse consapevole di dover vincere a tutti i costi il primo atto di una rivalità che può fare epoca, e questo tennis femminile senza dominatrici e con pochissimi personaggi carismatici ha bisogno come il pane di una grande rivalità.
L’età è tutta dalla loro parte: Naomi compirà 22 anni il 16 ottobre, Bianca ne ha fatti 19 il 16 giugno, ma a parte questo sono proprio loro due che possono fare la differenza nei prossimi anni, malgrado abbiano a che fare con tenniste molto forti, su tutte l’attuale numero 1 del mondo Ashleigh Barty, autrice di una stagione forse ancora più straordinaria di quella di Bianca e che per lei sarà difficilissimo ripetere, ma avranno a che fare anche con ragazze promettentissime e ambiziosissime più giovani di loro che vogliono arrivare ai vertici, in primis la strabiliante 15enne statunitense Coco Gauff. Non solo, ma a proposito di personaggi carismatici, l’anno prossimo tornerà per la seconda all’attività mamma Kim Clijsters e c’è molta curiosità per come riuscirà a comportarsi contro avversarie molto più giovani e preparate fisicamente di lei.
Personalmente sono contento di aver scoperto prima ancora che vincessero il loro primo Slam (Naomi gli US Open dell’anno scorso, Bianca quelli di quest’anno) le potenzialità di entrambe, che in precedenza erano note solo agli addetti ai lavori, soprattutto a quelli che seguono il tennis giovanile, e mi auguro con tutto il cuore che non si perdano per strada, dato che oltre che due tenniste pazzesche sono anche due persone eccezionali: Bianca che consola e abbraccia Serena costretta al ritiro nella finale di Toronto e Naomi che fa lo stesso con la piccola Coco dopo averle impartito una lezione memorabile a Flushing Meadows non sono cose di tutti i giorni, specialmente in uno sport ipercompetitivo come il tennis femminile. Mi auguro che non si perda specialmente Bianca. Sì, perché il discorso fatto per Ashleigh Barty vale anche per lei: riuscirà mai a infilare di nuovo 17 vittorie di fila, 13 consecutive al terzo set e 8 su 8 contro le top 10 come ha fatto quest’anno, serie tutte interrotte dalla sconfitta di ieri, oltretutto inframezzate da uno stop di quattro mesi per un infortunio alla spalla?
Naomi di fatto, per vicissitudini varie, nei mesi passati si era parzialmente persa, ora l’abbiamo finalmente ritrovata e adesso è lei in serie positiva da nove match e ora sfiderà “Ash Barty” nella finale di Pechino. Se gli dei del tennis ce le conserveranno con cura, con loro potremo divertirci per tanti anni e rivedremo la partita di ieri per tante e tante volte, come ha “promesso” Bianca a Naomi dopo l’abbraccio finale, magari con più qualità tennistica e ancora più emozioni di quanto ci hanno fatto vedere a Pechino. Come ha ribadito la recente, entusiasmante, Laver Cup, il tennis maschile, malgrado vincano quasi sempre i “big three”, è di qualità media nettamente superiore a quello femminile e un duello come quello tra Naomi e Bianca non può che far riavvicinare la gente al tennis in gonnella. Ebbene sì, non le ho mai chiamate per cognome se non all’inizio di questo sproloquio: per gli appassionati di tennis femminile, compreso me, due così sono semplicemente Naomi e Bianca.
Lo so, sono in ferie e non dovrei scrivere, soprattutto di sport, ma non posso farne a meno: non pensavo di tornare a entusiasmarmi (e a soffrire) per una tennista come ho fatto nella settimana appena conclusa. Perché questa tennista è protagonista di una favola. Una favola incerottata, ma una favola. Che comincia il 17 marzo scorso, quando nella finale dell’importantissimo torneo di Indian Wells la protagonista di questa favola, Bianca Andreescu, sconfigge dopo una partita pazzesca la favorita del match, la tedesca campionessa in carica di Wimbledon ed ex numero 1 del mondo Angelique Kerber. Sei giorni più tardi a Miami, altro supertorneo, la canadese di origini romene, che in quel momento doveva ancora compiere 19 anni (li farà il 16 giugno), ripete l’impresa e alla stretta di mano finale, che più che altro è uno schiaffo, una Kerber furibonda la apostrofa con queste parole: “You are the biggest drama queen ever” (Sei la più grande attrice drammatica di sempre).
Questa frase, oltre che dalla rabbia per essere stata sconfitta due volte in pochi giorni da un’avversaria più giovane di lei di 12 anni, nasce anche per certe presunte sceneggiate in campo della nordamericana, come il piegarsi ripetutamente in due dalla fatica o dal dolore e i medical timeout per curare la spalla destra. Queste sceneggiate sono talmente “ben orchestrate” che subito dopo Andreescu è costretta al ritiro con la spalla completamente fuori uso quando è sotto 6-1 2-0 contro l’estone Anett Kontaveit. Conseguenza di questo infortunio: Bianca in quattro mesi gioca solo una partita, il primo turno del Roland Garros, quando sconfigge (tanto per cambiare in tre set, il suo marchio di fabbrica) la ceca Marie Bouzkova, dà forfait nel turno successivo contro la statunitense Sofia Kenin e riesce a rientrare nel circuito WTA giusto in tempo per partecipare al torneo che si disputa a pochissima distanza dalla porta di casa sua, la Rogers Cup di Toronto, che ha un campo di partecipazione stellare. E ancora una volta Bibi, questo il suo soprannome, vince, aggiudicandosi le prime quattro partite in tre set e la semifinale, guarda caso contro Kenin, in due set ma anch’essa in più di due ore, per poi beneficiare del ritiro di Serena Williams per problemi alla schiena dopo soli quattro game della finale.
Un torneo vittorioso ma massacrante per Andreescu che ha fatto emergere in lei altri problemi fisici, primo fra tutti quello alla coscia destra, incerottata un giorno sì e uno no e alla fine del torneo un giorno sì e uno anche. Bianca, dopo aver trionfato nel 2014 nella categoria Under 16 e nel 2015 nella categoria Under 18 dell’Orange Bowl, la più importante manifestazione tennistica giovanile, è stata costretta a un primo lungo stop per un per un problema cronico all’anca che le ha procurato fastidi all’inguine e alla schiena, pertanto quel suo piegarsi in due al termine di uno scambio combattuto quando la partita si prolunga, o la sua zoppia, che ha caratterizzato quasi tutte le sue partite a Toronto, possono forse essere causate non da recite ma da dolori che sono una recidiva dei problemi fisici che ha già avuto in carriera. Tuttavia, a un 2018 pieno di problemi, sta seguendo un 2019 a dir poco straordinario. Ha iniziato l’anno al numero 152 del mondo, adesso è numero 14, inoltre, con quattro mesi di inattività meno il primo turno a Parigi, è numero 8 nella Race, la classifica per arrivare al Masters; ha un totale di 38 partite vinte e 4 perse, comprese le qualificazioni ai tabelloni principali e la Fed Cup, la Coppa Davis femminile; ha giocato sette volte contro una top 10 e ha sempre vinto! Numeri pazzeschi.
Drama queen quindi? Direi di no. Futura tennis queen? Probabile anche se all'orizzonte c'è in prospettiva la giovanissima statunitense Coco Gauff, e anche se francamente è difficile dire dove possa migliorare. I colpi li ha già tutti: dritto, rovescio, discese a rete e volée, palle corte micidiali, e ora anche il servizio: da quando ha aggiustato il movimento per preservare la spalla mette molte più prime. Ha gli acciacchi di una tennista di 40 anni ma supplisce a questo con il suo gioco potente e vario nello stesso tempo che la rende diversa da molte picchiatrici a occhi chiusi, con l’esuberanza dei suoi 19 anni, con l’assenza totale di paura e con una cattiveria agonistica che si è vista poche volte: non è un caso che, quando sembrava sull’orlo del ritiro, quest’anno abbia vinto 15 partite su 18 al terzo set. Con tutte queste caratteristiche già presenti nel suo gioco l’esperienza insegna che potrebbe solo peggiorare e perdersi per strada, come del resto hanno fatto molte protagoniste in attività del tennis femminile ma anche alcuni bambini prodigio del tennis maschile anni ottanta che quantomeno non sono migliorati. C’è ancora qualcosa invece che Bibi può limare, per esempio nella continuità all’interno di una stessa partita: sono ancora troppe le pause che si concede. E poi, se non vuole autodistruggersi definitivamente a livello fisico, qualche etto lo deve perdere.
Detto questo, ho cominciato a tenere le antenne dritte verso di lei quando era ferma ai box, quindi dopo Indian Wells, di cui ho ammirato qualche mese dopo un paio di sue partite su Youtube compresa la finale, e dopo Miami: durante i due tornei in Nordamerica ero ancora con la stagione invernale in corso ma il fatto che avesse battuto due volte consecutive Kerber me l’ha fatta notare subito. Non vedevo l’ora di ammirarla in diretta e sono contento che non abbia deluso le mie aspettative, anzi, che le abbia ampiamente superate, vista la lunga pausa alla quale era stata costretta. Peccato solo per la finale di Toronto contro Serena, costretta al ritiro dopo neanche 20 minuti, ma qui Bianca ha giocato il più bel “punto” della sua ancora giovane carriera andando ad abbracciare e consolare la sua leggendaria avversaria scambiando chiacchiere con lei per oltre un minuto. Sinceramente non mi ricordo nulla del genere al momento del ritiro di un tennista, né tantomeno alle strette di mano finali, specialmente nel tennis femminile. Nelle ultime ore è arrivata infine la sacrosanta decisione da parte di Andreescu di non partecipare all’altro supertorneo di Cincinnati di questa settimana: giustissimo per Bibi preservare il suo corpo acciaccato salvando gli US Open, il primo Slam dove tutte le avversarie la aspetteranno al ed evitando un altro lungo stop. Così, senza di lei in campo, con tutto il rispetto per le altre tenniste, posso cominciare a tutti gli effetti e a tempo pieno la mia settimana di ferie, meteo del paesello permettendo…
Da tempo immemorabile sono un amante più dello sport femminile rispetto a quello maschile, tranne il basket, che non sono mai riuscito a guardare, ma questa settimana lo dovrò fare e magari mi appassionerò anche a quello. Per carità, non seguo tutti gli sport femminili come seguo gli scacchi, il tennis e quelli invernali: per esempio, il calcio, anche se mi fa divertire, non l’ho mai seguito, e non seguo assiduamente neppure la pallavolo, che pure è uno degli sport in cui penso che le donne se la cavino meglio che in tanti altri. Ma una cosa è sicura: nello sport, almeno in quello, le donne mi danno sempre grandi soddisfazioni, che siano portacolori italiane o no.
E, per quanto riguarda l’Italia, negli ultimi trent’anni abbiamo avuto un numero enorme di grandi campionesse quasi ovunque. Adesso perfino nel calcio le azzurre stanno facendo una figura molto migliore rispetto ai colleghi uomini, che fin da quando vengono convocati nell’Under 21 sono già viziati, montati e strapagati, peraltro senza avere neanche un decimo della classe di certi campioni del passato. Insomma, le calciatrici azzurre giocano col cuore e non col portafogli, e contro la Cina, che contro di loro partiva probabilmente coi favori del pronostico, lo hanno dimostrato una volta di più.
Chiusa questa premessa veniamo al sodo: lunedì 24 giugno alle 18.04, come tutti sanno, sono state assegnate le Olimpiadi invernali del 2026 a Milano e Cortina d’Ampezzo. Sono state parecchie le carte vincenti che l’Italia ha messo sul tavolo per battere la Svezia, ma quella che si è rivelata decisiva sono stati i discorsi che sono stati tenuti alla sessione del CIO di Losanna da tre campionesse olimpiche, Sofia Goggia e Michela Moioli, che hanno parlato in coppia, e Arianna Fontana, e la giovanissima promessa dello short-track Elisa Confortola.
Quattro discorsi, oltretutto fatti in inglese, pieni della loro gioia di vivere, della loro emozione e della speranza di realizzare il sogno loro ma anche di tanti italiani: avere di nuovo le Olimpiadi in casa. Sono state loro, di questo sono assolutamente sicuro, a convincere gli indecisi a spostare i loro voti in nostro favore e a regalare a loro stesse, all’Italia e anche a me, il sogno dei quarti Giochi olimpici italiani, i terzi invernali. Insomma, le donne dello sport non tradiscono mai.
Riguardo ai meriti della delegazione italiana, alle future implicazioni politiche e altre cose ho già letto abbastanza idiozie in queste ultime ore quindi mi limito a dire che, a parte quello delle nostre atlete, il merito maggiore di questa vittoria, bisogna ammetterlo, è del presidente del CONI in persona, Giovanni Malagò, per il quale, dopo il no di Virginia Raggi alle Olimpiadi estive a Roma, i cinque cerchi casalinghi erano diventati una vera ossessione, e finalmente è riuscito a conquistarle senza mai smettere di crederci.
E ora, passata la grande gioia per la vittoria, bisogna mettersi tutti in pista. E’ un’occasione da non perdere per l’Italia: gli sprechi di Torino 2006, con tanto di impianti abbandonati a se stessi, non si devono più ripetere, e anche dal punto di vista dei trasporti fra le varie sedi di gara c’è da fare un notevolissimo salto di qualità rispetto ai Giochi di 13 anni fa e anche rispetto a quello che c’è adesso nelle zone interessate. Se gli errori del passato non si ripeteranno sarà davvero un’Olimpiade indimenticabile per tutti.
E’ un’occasione da non perdere anche per me: chissà mai che non possa tirare fuori dai byte impolverati del mio computer qualcuno dei miei progetti che ho cominciato e che poi ho interrotto non sapendo come dare loro la luce. E soprattutto, avendo davanti un traguardo così enorme come queste Olimpiadi, per far valorizzare e fare apprezzare maggiormente quello che faccio nella vita di tutti i giorni, cosa che non sono mai stato capace di fare.
Per la prima volta dal 1997 quest’anno, nella città russa di Kazan, si è svolto, come è consuetudine in campo maschile, un Torneo delle Candidate per designare la sfidante al titolo mondiale femminile di scacchi. In precedenza questo ruolo veniva conquistato da chi si aggiudicava un assurdo torneo a tabellone tennistico a 64 giocatrici, andando così a sfidare la campionessa del mondo in carica.
Addirittura, nell’ultima occasione, la cinese Tan Zhongyi, che vincendo il torneo a eliminazione di Teheran nel 2017 si era assicurata direttamente il titolo mondiale grazie al forfait per protesta contro questa cervellotica formula dell’iridata in carica, la sua connazionale Hou Yifan, era stata costretta l’anno scorso a rimettere in palio la sua corona in un match di dieci partite contro un’altra cinese, Ju Wenjun, la vincitrice del Grand Prix femminile 2015-2016 organizzato dalla FIDE, la federscacchi internazionale. Peraltro, Ju aveva strappato il titolo a Tan nel match dell’anno scorso confermandolo, poi, nell’ultimo, almeno speriamo, torneo a tabellone tennistico disputato lo scorso novembre a Khanty Mansiysk.
Bene, la FIDE, grazie anche al nuovo presidente Arkady Dvorkovich, ha deciso di mettere fine a questo vero e proprio obbrobrio introducendo finalmente dopo 22 anni dall'ultima volta un Torneo delle Candidate a otto giocatrici con girone di andata e ritorno, come nella migliore tradizione maschile, iniziato lo scorso 31 maggio e finito il 17 giugno, due giorni fa. La competizione è stata vinta dalla più giovane in gara, la russa Aleksandra Goryachkina, nata il 28 settembre 1998, che dopo 9 delle 14 partite totali aveva già ipotecato il trionfo con 7,5 punti sui 9 disponibili, 6 vittorie e 3 patte, con ben 2,5 punti di vantaggio su chi la inseguiva! Poi ha notevolmente rallentato il ritmo con altre quattro patte e una sconfitta proprio all’ultima partita, ma tutto ciò non le ha impedito di conquistare il diritto di sfidare a fine anno Ju Wenjun con due turni di anticipo.
Goryachkina, che dal 2018 ha la qualifica di Grande Maestro (assoluto, non solo femminile), ha un curriculum da predestinata: campionessa mondiale Under 10 (2009), Under 14 (2011), Under 18 (2012) e Under 20 (2013 e 2014), campionessa europea Under 12 (2010), Under 14 (2011) e Under 18 (2012) e due volte campionessa nazionale russa assoluta (2015 e 2017). Il suo a Kazan è stato un trionfo totale, eppure le sue avversarie erano di tutto rispetto, tanto è vero che questo torneo può essere a ben ragione definito il più forte di tutti i tempi in campo femminile. E’ stato anche un torneo in cui le giocatrici hanno mostrato una fortissima combattività tanto che su 56 partite, 30 si sono concluse con una vittoria, 22 di chi aveva i pezzi bianchi, 8 di chi aveva quelli neri: percentuali ben diverse da quelle che si verificano in campo maschile.
Il premio per la partita più bella è andato all'ucraina Mariya Muzychuk, campionessa del mondo nel 2015-2016, per la sua vittoria all'ultimo turno proprio contro Goryachkina. Di seguito tutte le partecipanti con tra parentesi il punteggio Elo (quello delle classifiche mondiali), la nazionalità, l’anno di nascita, la qualifica e l’eventuale titolo mondiale conquistato in passato, e perché la giocatrice si è qualificata per questo torneo. Più sotto ancora, con le grafiche di ChessBase, la tabella della classifica finale e tutte le partite del torneo mossa per mossa. Foto: Pagina Facebook della FIDE
Nana Dzagnidze (2510, Georgia, 1987, Grande Maestro dal 2008, qualificata per punteggio Elo)
Aleksandra Goryachkina (2522, Russia, 1998, Grande Maestro dal 2018, sostituta di Hou Yifan)
Valentina Gunina (2506, Russia, 1989, Grande Maestro dal 2013, qualificata per punteggio Elo)
Alexandra Kosteniuk (2546, Russia, 1984, Grande Maestro dal 2004 e campionessa del mondo 2008-2010, qualificata come semifinalista mondiale 2018)
Kateryna Lagno (2554, Russia, 1989, Grande Maestro dal 2007, qualificata come finalista mondiale 2018)
Anna Muzychuk (2539, Ucraina, 1990, Grande Maestro dal 2012, qualificata per punteggio Elo)
Mariya Muzychuk (2563, Ucraina, 1992, Grande Maestro dal 2015 e campionessa del mondo 2015-2016, qualificata come semifinalista mondiale 2018)
Tan Zhongyi (2513, Cina, 1991, Grande Maestro dal 2017 e campionessa del mondo 2017-2018, qualificata per punteggio Elo)
Avrei voluto scrivere del Torneo dei Candidati, anzi, delle Candidate, al Mondiale femminile di scacchi che si è chiuso oggi (anzi ieri, vista l’ora), ma siccome nessuno di voi si strapperà i capelli per la mancanza di questo mio resoconto (magari lo farò nei prossimi giorni, se ci riuscirò), volevo solamente ringraziare tutti coloro che mi hanno fatto gli auguri. Su Facebook, su Messenger di Facebook, su Whatsapp o per telefono. Non vi ho ringraziati uno per uno come faccio di solito e con la scusa di aggiornare il presente blog mando questo ringraziamento a tutti in una volta sola.
Per un giorno, anche se non ho potuto festeggiare insieme a papà, sorella e cognato, mi sono sentito davvero bene. Per un giorno, perché, malgrado abbia quasi del tutto risolto alcuni dei miei problemi di salute, sto per affrontare uno dei periodi più difficili della mia vita, anche se non posso raccontarvene i motivi. L’unica cosa positiva in questi ultimi mesi è stato riuscire a scrivere anche di altro, oltre che di sci, che è passato momentaneamente in secondo piano ma che, quando sarà il momento, spero che torni in cima ai miei pensieri di tutti i giorni, e di sicuro resta sempre al primo posto nel mio cuore.
Potrei raccontarvi che mi stufo di ogni progetto editoriale al quale comincio a dedicarmi, o meglio, non so mai come darlo alla luce chiedendomi se è valsa davvero la pena di cominciarlo invece di dedicarmi a cose più vitali, tuttavia è meglio non annoiarvi ulteriormente su questo. Potrei raccontarvi che il mio paesello mi manca da morire: sono passati quasi tre anni da quando ho lasciato la casa in affitto lassù ma è ancora una cosa che non riesco ad accettare, tuttavia è meglio non annoiarvi ulteriormente su questo.
Potrei ringraziare anche alcuni di quelli che gli auguri non me li hanno fatti, non perché hanno molto di meglio da fare che non stare a vedere su Facebook se è o no il mio compleanno ma perché l’hanno fatto apposta. E io so benissimo chi sono. Ma il divin poeta diceva saggiamente ma anche con sommo disprezzo “Non ragioniam di lor ma guarda e passa”. Grazie di nuovo a quelli che si sono fatti sentire e leggere: tra questi ci sono persone molto speciali che ci tengono molto a me e a cui io tengo molto e spero che questo mi dia tanta forza non soltanto in questo momento ma anche nelle prossime difficili settimane.
E’ appena cominciato un giorno che per me rappresenta una svolta epocale. Dopo sei anni con dei momenti molto belli ma anche molto brutti, specialmente nell’ultimo inverno, è il momento per me di lasciare Neveitalia. Non parlerò male di questa esperienza durata più di sei anni, anche se forse dovrei farlo per parecchi motivi, e sicuramente alcuni degli ormai miei ex colleghi mi odieranno avendo scoperto dove vado... preferisco invece ricordare solamente le trasferte tramite le quali ho avuto modo di entrare nel mondo che amo, quello dello sci alpino e degli sport invernali, e poco importa che queste trasferte mi abbiano quasi mandato sul lastrico. Da oggi, quindi, si volta pagina, e da sopportato quasi indispensabile (scrivevo dello sport invernale più popolare d’Italia, lo sci alpino, che era il traino della sezione sportiva di Neveitalia), torno finalmente a essere uno dei tanti. Mi rimetto in gioco ricominciando praticamente da capo: il beneficio economico che riceverò dalle due nuove collaborazioni che ho trovato, oasport.it, che mi ha finalmente convinto a saltare sull’altra sponda del fiume dopo un inseguimento durato anni e che è il quinto sito di sport più cliccato d'Italia, e pianetamilan.it (che per un interista non è male...) non è certo il massimo, ma se riuscirò a fare le cose bene su due fronti sono sicuro che le cose per me miglioreranno, specialmente se tornerò a fare gli sport invernali, per i quali OA peraltro mi ha cercato. Le uniche cose che mi preoccupano sono due: che mi parta l’embolo rovinando il rapporto coi miei capi, come purtroppo molto spesso mi è capitato (sono davvero una brutta persona), e che il dolore alla gamba malata, che mi era stata curata quando sono stato in ospedale ma che poi è di nuovo peggiorata, specialmente nelle ultime notti che sono state tremende, aumenti ancora. Spero tanto di poterla sottoporre a una visita medica in un tempo più breve dei due mesi che mi sono stati prospettati e che si possa fare qualcosa quantomeno per alleviare il dolore. A parte questo, come detto, mi rimetto in marcia e cambio aria cercando di mantenere la concentrazione al massimo perché saranno dei mesi davvero impegnativi. Che Dio e mamma da lassù guardino giù e mi aiutino. E mi guardino anche dagli amici, o presunti tali. Per concludere, spero che il resto della mia vita sia migliore di quanto ho vissuto fino a ora.
Questa frase, “Don’t Stop Believing”, pronunciata da Massimiliano Ambesi durante la telecronaca insieme a Dario Puppo della mass start maschile di biathlon dei mondiali di Östersund di ieri vinta in modo assolutamente incredibile da Dominik Windisch, dicevo, questa frase, “Mai smettere di crederci”, proprio come ha fatto Dominik, deve diventare la mia filosofia di vita. Caro Massi, non aver paura di inseguire i tuoi sogni, anche se la carta d’identità parla di quasi 51 anni, e smettila di farti il sangue amaro per i paraculi, pallisti e maestrini che ti hanno sempre circondato e che continuano a circondarti. Adesso che hai smesso di bere, tira fuori i coglioni e tira fuori anche un po’ d’orgoglio e amor proprio, cosa che non hai mai fatto in vita tua. Citando liberamente il Sommo Poeta, non ragionar di lor ma guarda e passa. E credi in te stesso.
Quando qualche mese fa sono venuti alla luce tutti i miei problemi sapevo che non avrei, anche per motivi economici, potuto fare nessuna trasferta sciistica. Tranne forse una, la più nel tempo e l’unica che sarei stato in grado di fare. Questa trasferta è quella che ho appena concluso, e cioè quella a Cortina d’Ampezzo. Dove sapevo di trovare tanti amici tra colleghi, ex atleti e componenti lo staff dell’organizzazione, in mezzo ai quali mi sarei sentito stimato e rispettato.
Mercoledì sono arrivato a Cortina e sono rimasto subito soddisfatto: l’albergo era un due stelle in pieno centro ma la camera era comoda come non ne ho trovate nemmeno in certi tre stelle in cui sono stato. Poi il meteo: all’inizio della settimana era previsto molto brutto e invece, da venerdì a domenica, tutte e tre le gare veloci femminili di Coppa del Mondo in programma sono state portate a termine. La giornata clou è stata l’ultima, domenica, passata da poche ore: noi che eravamo presenti potremmo essere stati testimoni di un fatto storico, e cioè all’ultima gara di Lindsey Vonn. La fuoriclasse statunitense, 82 vittorie in Coppa del Mondo, potrebbe ritirarsi immediatamente anziché arrivare alla fine della stagione a causa dello stato pessimo delle sue ginocchia.
L’altra grande infortunata di quest’anno, la nostra Sofia nazionale, Sofia Goggia per chi non lo sapesse, presente al parterre a disposizione dei media in attesa del suo prossimo ritorno in pista dopo la frattura al malleolo dello scorso ottobre, ha omaggiato di un mazzo di fiori Lindsey quando questa è arrivata al traguardo. Le due amiche-rivali si sono sciolte in un abbraccio bellissimo. Il gesto della Sofia nazionale era stato quasi sicuramente pensato e studiato a tavolino, essendo lei un grande personaggio mediatico per giunta in mano a un grande management ma è stato ugualmente un momento di bellezza disarmante. Dietro gli occhiali da sole io mi sono commosso, non mi vergogno a dirlo.
Questo episodio è l’ennesima conferma che l’ambiente dello sci alpino e degli sport invernali in generale, malgrado i suoi tantissimi difetti, è il migliore che io abbia mai conosciuto e faccio fatica a pensare che ne possa esistere uno migliore. Domenica sera poi il ritorno a casa, con tanto di strappo dato fino a Brescia alla mia occasionale (e gradita) compagna di viaggio e cena con lei e sua mamma in un ristorante pizzeria che si chiama come una famosissima canzone di Lucio Dalla dove ho degustato una strepitosa zuppa di pesce e un altrettanto strepitoso tiramisù.
Quattro giorni, da mercoledì a domenica, per ritrovare il mio mondo. E poco importa se sono tornato a casa all’una di notte passata e sto ancora scrivendo queste righe quando stanno per scoccare le tre. Contento di essere a casa e allo stesso tempo dispiaciuto che la trasferta sia finita. Spero che non sia stata l’ultima della mia vita. Intanto, mi sento bene. No, sono felice.
Caro Michael Schumacher, i primi giorni dell’anno segnano il genetliaco di alcuni personaggi che hanno fatto la storia dello sport. Il 4 è il giorno di Armin Zoeggeler, il più forte slittinista di tutti i tempi, classe 1974, il 5 è quello di Janica Kostelic, classe 1982, neomamma che senza tutti gli infortuni che ha avuto sarebbe diventata la più grande sciatrice di tutti i tempi. Oggi tocca a te, caro Schumi, e per giunta dovresti festeggiare un traguardo importante, dato che sei classe 1969: quello del mezzo secolo. Dovresti perché il 29 dicembre 2013 una caduta sugli sci to provocò danni cerebrali gravissimi tanto da ridurti, probabilmente, a niente più che a un vegetale, come capitò allo sciatore valdostano Leonardo David, caduto al traguardo della discesa di Lake Placid del marzo 1979 e poi deceduto sei anni dopo senza mai più risvegliarsi dal proprio stato di torpore. Caro Schumi, temo che la tua situazione sia esattamente la stessa, tanto più che la tua famiglia non emette mai un comunicato ottimistico sulle tue condizioni di salute. Nei giorni scorsi è stato scritto da qualcuno che non sei più costretto eternamente a letto ma riesci anche ad alzarti in piedi: niente di tutto questo compare nel comunicato dei tuoi cari per il tuo 50° compleanno, il quale si limita a far sapere che la famiglia è felice di festeggiare questa ricorrenza insieme a tutti noi, annuncia la nascita di una app dedicata a te e alle tue vittorie e ribadisce per l’ennesima volta che sei in buone mani e che tutti stanno facendo tutto il possibile per aiutarti. Perdurando il mistero, e anche il doveroso riserbo della tua famiglia sulle tue reali condizioni di salute, non mi resta che ipotizzare quanto detto prima e ricordarti per tutto quello che hai combinato in pista. Nel bene e nel male hai rivoluzionato la Formula 1 e anche la stessa anima della Ferrari: sette titoli mondiali, dei quali cinque consecutivi con la Rossa, e 91 Gran Premi vinti non sono certo bazzecole. Non so se sei stato il più grande: i tamponamenti a Damon Hill grazie al quale vincesti il primo dei due titoli con la Benetton nel 1994 e a Jacques Villeneuve per colpa del quale perdesti quello del 1997 quando eri già al volante di un bolide di Maranello sono macchie indelebili nel tuo curriculum, squalificato ulteriormente da un modesto ritorno alle gare dal 2010 al 2012 al volante di una Mercedes che non era certamente quella attuale. Per non parlare degli sfacciati favoritismi di cui godesti dal tuo team, tipo nel 2002, quando in Austria il tuo compagno di squadra Rubens Barrichello non venne fatto vincere anche se tu in classifica mondiale avevi già una tale posizione di sicurezza da poterti permettere un piccolo regalo al tuo scudiero, che gli venne poi puntualmente fatto poco più di un mese dopo nel Gran Premio d’Europa al Nurburgring. In ogni modo non c’è dubbio che tu, caro Schumi, sei uno dei primi cinque piloti di sempre se non addirittura uno dei primi tre. Preferisco ricordarti nei momenti di tutti i tuoi titoli mondiali vinti con la Ferrari, il primo dei quali a Suzuka nel 2000, il più bello perché per la Rossa arrivava a 21 anni di distanza dall’ultimo. E preferisco ricordare di aver vissuto gran parte della tua epopea a Maranello, anche se sempre dalla redazione e mai sul posto, con le dirette scritte dei Gran Premi giro per giro apprezzatissime da appassionati e colleghi ma non dai capi della redazione per cui lavoravo, che a un certo punto come ringraziamento mi diedero un sonoro calcio in culo e per loro interposta persona cominciò un ostracismo verso di me che dura ancora adesso. Non c’è dubbio che su di te, caro Schumi, c’era sempre da scrivere qualcosa e scrivere di te adesso che probabilmente non puoi nemmeno goderti né il mezzo secolo né la tua pensione dorata è una cosa che mi fa enormemente male. Quali che siano le tue reali condizioni di salute, buon 50° compleanno, caro Schumi, e grazie di tutto.
Il tuo ammiratore e detrattore Max Valle
Sto cominciando a scrivere queste righe in piena notte di Capodanno e a un’ora, l’1,10, in cui dovrei forse già essere nel mio letto di solitudine. Ma non lo faccio per paura che un petardo-bomba mi svegli di soprassalto. Non che in questo mese di dicembre siano stati particolarmente numerosi anzi, anche oggi a mezzanotte e dintorni si sono sentiti più fuochi d’artificio che altro. Evidentemente anche i lanciatori di petardi e di petardi-bomba si stanno estinguendo, almeno nella mia zona, o perché i loro genitori glielo vietano, oppure perché non hanno i soldi per mandare i figli a comprarli: sembra incredibile ma la crisi sta attanagliando anche la categoria dei bombaroli di Capodanno, cosa che fino all’anno scorso sembrava impossibile. Detto questo, meglio tornare al vostro affezionatissimo che è meglio.
E’ la quarta sera di San Silvestro e notte di Capodanno di fila che passo da solo, la prima è stata la mia ultima al mio adorato paesello, le ultime tre nella casa di Milano, per di più quest’anno è accaduto senza neanche una goccia di spumante con cui brindare, ma tutto questo non è un male: alla prima cosa ormai mi sono abituato, alla seconda devo rinunciare per necessità. Così per tenermi allegro mi sono cucinato un buon cotechino e delle buone lenticchie, entrambi rigorosamente precotti (altrimenti sarei ancora alle prese con piatti e pentole) che mi sono stati regalati nei giorni scorsi insieme ad altre buone cose da mangiare, tra le quali c’è una scatola di cioccolato fondente, che malgrado non sia il mio preferito, sono pronto a far fuori a breve (l’animaletto fatto di cioccolato al latte l’ho invece fatto fuori il giorno stesso dell’arrivo del cesto-regalo).
Domani mattina (stamattina, per chi legge, nda) mi sveglierò come non riesco più a fare, per esempio, a Natale (per quanto l'ultimo mi abbia dato molta serenità) da molto tempo a questa parte: pieno di sogni e di speranze per l’anno appena iniziato. Sarà (è, per chi legge, nda) anche la giornata di due eventi che da sempre mi mettono di buonumore: la gara di Garmisch-Partenkirchen della Tournée dei 4 Trampolini, secondo il mio modesto parere la più bella delle quattro che si svolgono a cavallo tra anno vecchio e anno nuovo, e soprattutto il Concerto di Capodanno di Vienna coi valzer, le polke e le mazurche della famiglia Strauss, che ormai da qualche anno la Rai trasmette imperdonabilmente in differita benché nel mondo sia molto più seguito di quello del Teatro La Fenice di Venezia che ne ha preso il posto nel palinsesto delle dirette.
Perciò, dato che la differita andrà in onda in contemporanea al salto con gli sci, dovrò registrare il concerto viennese e guardarmelo e sentirmelo subito dopo la conclusione degli slalom paralleli maschile e femminile di Oslo che alle 16,30 in punto mi faranno già rituffare nel lavoro. Ma anche questo tutto sommato non è un male: guardandolo e sentendolo come ultima cosa della prima giornata dell’anno manterrò vive le mie speranze che il 2019 sia per me un anno migliore di (quasi) tutti gli anni precedenti. Sì, perché quelle musiche, oltre a mettermi di buonumore e a farmi sentire allegro (solo un disco qualsiasi dei Beatles ha il potere di mettermi allegria e umore ancora migliori) tengono vive in me aspettative non dico di un futuro ricco di soddisfazioni ma quantomeno un po’ più sereno.
Temo però che dal 2 gennaio questa magia sarà già svanita: tornerò agli "arresti domiciliari", ovviamente lavorativamente parlando, con pochissimi minuti d’aria, a causa della schiavitù di arrivare prima degli altri a ogni costo con le notizie, e aspetterò inutilmente una telefonata (o un Whatsapp o un’altra delle diavolerie moderne alle quali peraltro mi sono abituato fin troppo bene) da parte di qualcuno di quelli che dicono di stimarmi professionalmente o anche da parte di gente che dice di volermi come collaboratore, in entrambi i casi per offrirmi qualcosa di serio. Se una telefonata (o Whatsapp) di questo genere non arriverà, e di questo sono completamente certo, dovrò essere io a darmi da fare una buona volta. Se invece qualcuna di queste telefonate (o Whatsapp) arriverà vorrà dire che mi sono sbagliato.
Ma sognare solo per il primo giorno dell’anno e non farlo per gli altri 364 non significa solo che sono pessimista di natura, ma anche che sono realista. Purtroppo. Lavorare come uno schiavo non paga, anzi, ti rende ulteriormente schiavizzato perché sei accomodante e poi non ti conviene ribellarti. Ecco, intanto sono le 2,30 di notte, bombe di Capodanno non ne sono esplose e posso andare a letto tranquillo in attesa di pubblicare questo mio post, che nel frattempo ho riletto e risistemato, domani mattina (sempre stamattina, per chi legge, nda). P.S.: la foto immortala tutto il mio ottimo cenone di San Silvestro come più sopra descritto. P.S.2: buon 2019 di cuore a tutte e a tutti! P.S.3: con enorme sprezzo del pericolo dei lamenti dei vicini ho karaokato fino alle 3,15 per mettermi ancora di più di buonumore. Ora me ne vado davvero a nanna!