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domenica 26 novembre 2023

Una domenica di sport indimenticabile


Cominciamo dalla fine. Avevo otto anni e mezzo appena "compiuti" quando, il 18 dicembre 1976, l’Italia vinceva la sua prima Coppa Davis. Che bell’effetto che fa dire adesso “la sua prima Coppa Davis” quando fino a ieri si diceva “la sua unica Coppa Davis”. Sì perché di Coppa Davis, l’insalatiera d’argento più famosa del mondo, ne è arrivata una seconda oggi a Malaga. Con una formula pessima fin che si vuole, ma è arrivata.


Ed è arrivata grazie al capitano non giocatore Filippo Volandri (malgrado alcune sue scelte discutibili), a Lorenzo Sonego, a Lorenzo Musetti (anche se in tono minore), al veterano doppista Simone Bolelli, che in Spagna è rimasto in panchina lasciando spazio a Sonego, così come Matteo Berrettini che ha fatto da spettatore-tifoso, a Matteo Arnaldi, ma soprattutto a Jannik Sinner che finalmente vince qualcosa di davvero importante e lo fa riportando la Coppa Davis in Italia dopo 47 anni da trascinatore, principalmente con la vittoria capolavoro su Novak Djokovic nella semifinale contro la Serbia di ieri cancellando tre match point, e poi distruggendo oggi l’australiano Alex De Minaur, vittoria che ha significato il trionfo azzurro e che ha fatto seguito a quella di Arnaldi nel primo singolare della finale contro l’altro aussie Alexei Popyrin. Ed è bello che ad alzare la Coppa Davis con questi ragazzi ci sia stato il 90enne Nicola Pietrangeli, il capitano di quella squadra di 47 anni fa, formidabile ma divisa nettamente in due fazioni contrapposte, con lui che stava nel mezzo, a differenza di quella attuale, che è unita da una straordinaria amicizia collettiva.


Questa domenica, il 26 novembre 2023, che rimarrà per sempre nel cuore degli appassionati soprattutto di tennis ma non solo, era cominciata con la vittoria per un soffio di Lisa Vittozzi, che nella 15 km di Östersund non poteva cominciare meglio la Coppa del Mondo di biathlon femminile, e per chi non conosce questo sport, guardatelo perché è uno dei più pazzeschi e divertenti che esistano. È proseguita poi col diciannovesimo successo in 22 gare stagionali di F1 dell’olandese Max Verstappen, che ha chiuso l’anno come l’aveva iniziato, cioè dominando.


Uno dei due momenti più alti di questa giornata è stato poi il secondo titolo mondiale nella MotoGP per Francesco, detto “Pecco”, Bagnaia, con la sua Ducati, che a Valencia ha vinto gara e iride. Il suo avversario più pericoloso, Jorge Martin, che aveva i nervi a fior di pelle fin dal precedente Gran Premio, ha tentato di fare strike con tutti, prima con Pecco senza successo, poi, dopo aver perso una marea di posizioni, ci è riuscito con Marc Marquez, facendogli fare un volo terrificante.


Ma i Mondiali si vincono anche così, restando calmi e tranquilli nei momenti decisivi, e in questo Jannik Sinner, per tornare alla Coppa Davis, è il simbolo di questa calma e tranquillità. Continua a non piacermi particolarmente come tennista ma quello che conta è che adesso tutti vogliono giocare a tennis grazie a lui e tutti parlano di lui. Dopo questo trionfo, da me auspicato la settimana scorsa dopo l’amarissima sconfitta contro Djokovic alle ATP Finals di Torino, si merita davvero la candidatura a Messia dello sport italiano, ma in particolare del tennis.


Ah dimenticavo: due cose sono passate e passeranno sotto silenzio dai media. Ieri le azzurre del curling hanno conquistato l’argento europeo cedendo solo all’ultimo “stone” contro la favoritissima Svizzera. Oggi la statunitense Mikaela Shiffrin ha trionfato nello slalom di Killington raggiungendo l’incredibile numero di 90 vittorie in Coppa del Mondo, e in questa gara, poco prima che Sinner & Friends alzassero l’insalatiera d’argento, Marta Rossetti ha conquistato un quinto posto che è il miglior risultato per una slalomista azzurra da oltre sei anni e mezzo a questa parte e che si spera risollevi il settore più disastrato dello sci alpino italiano, quello dello slalom femminile.


Un’ultima cosa, davvero un’ultima cosa. Forse. L’Italia del tennis femminile ha vinto per quattro volte (2006, 2009, 2010 e 2013) quella che allora si chiamava Fed Cup e oggi si chiama Billie Jean King Cup e che è il corrispettivo femminile della Coppa Davis, contro le due (che bello dire due e non più una!) degli uomini, e quest’anno le ragazze azzurre sono arrivate di nuovo in finale dopo due lustri, perdendo dal Canada.


Ma sia quest’anno sia gli anni in cui questo trofeo l’hanno vinto, le tenniste italiane sono state quasi completamente ignorate dai grandi media e quindi dal grande pubblico. Eppure sono questi trionfi, insieme a quelli di Francesca Schiavone al Roland Garros del 2010 e di Flavia Pennetta in finale su Roberta Vinci agli US Open del 2015, dei quali per fortuna ci si è occupati un po’ di più, che hanno tenuto in piedi il tennis italiano e che hanno permesso l’arrivo e la crescita della squadra che oggi, finalmente, ha portato a casa la seconda, storica, Coppa Davis.


Chiudo qua questo sproloquio ma comincio ad aggiornare i miei database sportivi. La mia giornata lavorativa è stata lunghissima e, con così tanti sport da seguire anche se non tutti per lavoro, estenuante, ma alla fine decisamente appagante e piena di gioia. Non sempre, anzi, per me quasi mai, ma ogni tanto vivere è bello.


Foto: Getty Images

domenica 11 settembre 2022

Continuano a uccidere uno sport già morto. Basta con questa Formula 1!


Il 3 maggio 1994 la Gazzetta dello Sport, come potete vedere nella foto che apre questo pezzo, faceva un titolo in prima pagina involontariamente profetico: "Con Senna muore questa Formula 1". E il sottotitolo era questo: "Sicurezza subito o non si corre". Bene, da quel giorno si è abusato delle misure di sicurezza (l'unica davvero provvidenziale, oltre ai telai più sicuri delle vetture, è stato l'halo, la protezione per la testa dei piloti) e si è gradualmente smesso di correre. O almeno, di correre come si era sempre corso fino al Gran Premio di San Marino 1994 a Imola, fino a quel 30 aprile 1994, quando morì il più dimenticato dei piloti caduti del Circus, Roland Ratzenberger, e fino soprattutto all'1 maggio 1994, quando morì Ayrton Senna, il campione dei campioni.


Subito dopo, invece di rallentare le vetture, si cominciò a rallentare i circuiti, o almeno quelli che non erano già stati rallentati come Monza o Silverstone. Si cominciò proprio da Imola, dove vennero inserite due chicane al Tamburello e alla Villeneuve, le due curve dove erano morti Senna e Ratzenberger, quindi si continuò con Spa-Francorchamps, il cui circuito originario di 14 km era già stato bannato, così come altri gioielli come il Nordschleife, Brands Hatch e altri, inserendo un'orrenda chicane al passaggio dell'Eau Rouge-Raidillon che fortunatamente durò solo un anno, inoltre la prima chicane di Monza, nel 2000, venne ulteriormente rallentata, così come la leggendaria seconda curva di Lesmo, già modificata nel 1995.


La demolizione della storia della Formula 1 continuò con la vera e propria distruzione di circuiti come Silverstone e Hockenheim, che vennero completamente stravolti in nome della sicurezza. In parole povere, queste piste vennero equiparate a circuiti orripilanti, disegnati tutti dalla stessa mano, come per esempio quello di Sochi, o quelli di Sepang e Istanbul (i meno peggio), Abu Dhabi, Jeddah, Shanghai, Singapore, Baku: tutti posti in cui la Formula 1 andò solo per interessi commerciali.


Poi il programma delle qualifiche, che ai tempi di Senna, quando venivano chiamate ancora qualificazioni o prove ufficiali, prevedevano un'ora al venerdì e un'ora al sabato, venne limitato al sabato e quindi, con ulteriori stravolgimenti, si è arrivati al sistema a eliminazione di oggi, fatto solo per aumentare lo spettacolo televisivo. Quindi sono stati aboliti i test privati tra un Gran Premio e l'altro per diminuire i costi, essendo notoriamente la Formula 1 un ambiente in cui arrivano solo dei pezzenti: conoscete qualche altro sport dove è proibito allenarsi tra una gara e l'altra? Io no.


E che dire dell’obbligo, gradualmente introdotto, di utilizzare almeno due mescole diverse di gomme per ogni Gran Premio, per dare più importanza alle fermate ai box e alle strategie invece che alla battaglia in pista, purché sana? Come non ricordare poi i track limits, i limiti del tracciato superando i quali, anche se non ne trae vantaggio, a un pilota viene tolto il tempo di quel giro, che magari gli ha fruttato la pole, e la relativa abolizione della ghiaia sui nuovi circuiti, sempre naturalmente in nome della sicurezza, dove il pilota andava a impantanarsi se arrivava troppo largo in una curva? Come non ricordare anche la reintroduzione, dopo più di 60 anni, del punto aggiuntivo per il giro più veloce in gara, con i piloti con le vetture più performanti che si fermano all’inizio del penultimo giro a cambiare una volta supplementare le gomme per tentarlo nell'ultimo strappandolo così ai diretti avversari?


Infine, le due cose più meravigliosamente demenziali, la cui demenza si è evidenziata alla massima potenza nel Gran Premio d'Italia concluso poche ore fa. Invece di penalizzare i piloti sulla griglia di partenza per qualche manovra scorretta che effettuavano in pista, si è deciso di farlo fissando un tetto massimo di motori da poter utilizzare anche nel corso della stagione, sempre per l'illusoria riduzione dei costi ma anche per avere più spettacolo in pista con più sorpassi da parte dei più forti costretti alla rimonta se penalizzati, ma che vengono aiutati da più di dieci anni dal DRS, l'ala mobile che può essere spalancata per scavalcare chi ci precede purché il distacco sia inferiore al secondo: un meccanismo che consente anche a chi non sarebbe mai stato in grado di effettuare sorpassi in condizioni normali di sentirsi un fuoriclasse.


Ma torniamo al tetto di propulsori utilizzati in un anno, attualmente fissato a tre, (un numero miserrimo, come se i fornitori di power unit, come si chiamano adesso, non ne producano almeno il decuplo in un anno), superato il quale il povero pilota viene penalizzato in griglia partendo dal fondo, o di 10 posizioni, o di 5, a seconda della rilevanza della sostituzione delle parti del motore, e questo riguarda anche gli elementi del cambio. A Monza ieri sono stati ben nove i piloti penalizzati e fino a tarda sera non si sapeva ancora quale sarebbe stata la griglia di partenza del Gran Premio d'Italia a causa delle diverse interpretazioni, anche da parte degli stessi team, di un regolamento scritto con i piedi, per non dire con qualcos'altro. E fortuna che oggi, prima del Gran Premio, qualcun altro non ha deciso di sostituire alcune parti meccaniche della sua vettura, altrimenti la griglia sarebbe stata nuovamente rivoluzionata. La domanda quindi è: ma cosa si fanno a fare le qualifiche se il risultato viene completamente stravolto da queste norme?


Dulcis in fundo, la safety-car, ma prima un accenno alla bandiera rossa. Premesso che quando, fino a qualche anno fa, la gara veniva interrotta con questo vessillo, i tempi dei concorrenti prima dell'interruzione venivano sommati a quelli dopo l'interruzione, ma adesso non più: si parte o dalla griglia, o dai box dietro la safety-car, nell'ordine in cui i piloti erano prima dell'interruzione, ed è come se la gara ricominciasse da zero, come a Baku l'anno scorso, quando la ripartenza fu dietro la safety-car per un giro e poi solamente i due giri successivi contarono di fatto per il risultato finale, col cronometro che però ha continuato a correre anche per il tempo in cui la gara era interrotta, abbassandone così notevolmente la media oraria.


Ma dicevamo, appunto, della safety-car, introdotta in modo disastroso per la prima volta in Canada nel 1973, generando una confusione tale che tuttora non si sa con assoluta certezza se quella gara fu realmente vinta da colui che venne proclamato vincitore. Della vettura di sicurezza, per fortuna, non si parlò più per vent'anni, e l'1 maggio era stata reintrodotta da un anno quando ricomparve proprio in quel Gran Premio di San Marino in cui morì Senna poco prima dello schianto fatale del brasiliano, perché gli addetti alla pista ripulissero i detriti lasciati dalle vetture di JJ Lehto e Pedro Lamy, coinvolti in un incidente in partenza. Da allora ha infestato sempre di più le gare di Formula 1, falsandone decine e permettendo sempre meno ai piloti di gareggiare sul serio. Adesso per esempio entra in azione ogni volta che una vettura viene parcheggiata a bordo pista, e addirittura con la pioggia non si può quasi più correre, come dimostra la buffonata di Spa-Francorchamps, con tre giri tre tutti dietro la safety-car e con la classifica finale della "gara" stilata tenendo conto solamente del primo giro effettuato.


Quello, tra i tanti, sembrava il punto più basso raggiunto dalla Formula 1 nella sua storia recente, proprio nella stagione, quella del 2021, che molti smemorati considerano la più bella di sempre e che invece, oltre ai patetici ripetuti autoscontri tra Verstappen e Hamilton, ha visto obbrobri come quelli dei due giri finali a Baku citati prima o la ripartenza del Gran Premio d'Ungheria con solamente Hamilton posizionato sulla griglia mentre tutti gli altri piloti si erano fermati a cambiare le gomme dopo l'interruzione per un incidente multiplo alla prima curva, la stessa gara in cui Vettel, secondo, fu incredibilmente squalificato perché arrivato a fine gara con una quantità di benzina al di sotto del limite consentito, come se ci dovesse essere un limite per chi rischia di finire senza carburante.


Ma oggi, a Monza, è stata scritta un'altra pagina grottesca e ridicola. Daniel Ricciardo ha parcheggiato la sua auto in panne lungo il tracciato ed è entrata in scena la safety-car, ma non andando in pista davanti al leader Verstappen, bensì davanti a Russell, terzo in quel momento, con il risultato che si è perso tempo per far sì che fosse Verstappen a essere subito dietro a questa disgraziata vettura, e una volta che il campione del mondo è arrivato nella posizione corretta, i due doppiati che c'erano tra lui e Leclerc, secondo, non hanno potuto sdoppiarsi come avrebbero dovuto fare perché la gara stava ormai finendo e non c'era più tempo per farlo. Insomma, si è tornati indietro di 49 anni, a quel Gran Premio del Canada del 1973, quando il pilota della vettura di sicurezza sbagliò i tempi di entrata in pista perdendosi il leader della corsa.


Quindi la domanda ulteriore è: era proprio necessaria la safety-car? Secondo me, ma io sono ormai un vecchio nostalgico di quando le corse erano molto più semplici e lineari, senza cambi di gomme o rifornimenti programmati e tantomeno safety-car, e con bandiere rosse solo in casi limite, non avrei né mandato la safety-car né esposto la bandiera rossa: del resto, basta farsi un giro su Youtube per guardare decine di video di gare che continuavano come se nulla fosse con vetture ferme a bordo pista perfino a Montecarlo, o purtroppo con auto che bruciavano capovolte con il pilota intrappolato al di sotto della vettura, come il povero Williamson a Zandvoort 1973 (ma in quest'ultimo caso e anche in altri si trattava di cinismo estremo e di assenza totale di pietà umana, perché lo spettacolo doveva continuare), oppure di gare vinte da Stewart, Senna e Michael Schumacher sotto diluvi universali.


Ma se proprio si voleva mettere in sicurezza i piloti, per il terrore che la morte torni a colpire la Formula 1 e che aleggia sempre sul Circus come se questo non fosse uno sport pericoloso, non si poteva esporre la bandiera rossa e far riprendere la corsa per gli ultimi cinque o sei giri, azzerando tutti i distacchi in un modo meno indecente? Sicuramente ci sarebbe stata una conclusione migliore e sopratutto più equa di quella che c'è stata, ossia dietro la safety-car, oltretutto tenendo con il fiato sospeso il pubblico record accorso all’Autodromo, che così si sarebbe divertito fino alla fine e che invece ha pagato il biglietto per vedere i giri finali completamente neutralizzati. Ma la FIA, in un comunicato, ha detto che non c'erano le condizioni per esporre la bandiera rossa, pertanto si è ricorsi alla "pace car", come la chiamano in Nordamerica.


Qual è la morale di questo mio interminabile sproloquio? È che la Formula 1 ha riguadagnato anche in Italia tantissimi spettatori, specialmente tra i giovani, non certo grazie alle gare o alla telecronache, bensì alla serie tv Netflix “Drive to Survive”, ampiamente esagerata e romanzata e senza un filo cronologico serio, ma è uno sport che è solo l'ectoplasma del meraviglioso, e purtroppo anche tragico, sport che era fino a tutti gli anni ottanta e ai primi novanta del secolo scorso. È bene che i giovani nati, diciamo, negli ultimi trent'anni, studino un po' della storia dello sport che stanno guardando, perché sappiano quello che si sono persi, e che razza di eroi erano i suoi piloti, che dovevano guidare delle bare ambulanti difficilissime da tenere in strada.


Una volta letta un po’ di storia della Formula 1, potranno fare il confronto con quella di oggi, sempre che quella di oggi possa essere ancora chiamata sport, visto che dopo le morti di Ratzenberger e Senna, come ho cercato di raccontare, il Circus ha avuto, per fortuna, solo un pilota caduto in un weekend di gara, Jules Bianchi, ma è stato (il Circus) gradualmente ucciso con coltellate plurime che continuano a essere inferte anche adesso che ormai da tempo è un cadavere risorto come uno zombie, o un baraccone totalmente allo sbando, o come un videogioco, o come una serie tv, chiamatelo come vi pare. In altre parole, è una cosa con la quale lo sport ha ben poco a che fare. E gli addetti ai lavori che seguono la Formula 1, passato qualche giorno dall’ennesima vergogna, la seppelliscono, perché gli spettatori e gli appassionati vanno trattenuti e vanno tenuti nell’illusione che questa sia la più bella Formula 1 mai vista. E perfino io continuo a guardarla quasi per inerzia, per lavoro o forse solo per parlarne male in sproloqui come questo, ricordandomi bene di quello che era, ma prima o poi mi stuferò definitivamente.

sabato 3 settembre 2022

I primi 100 anni del circuito di Monza

Oggi si celebra una data storica per l’automobilismo italiano e mondiale: esattamente 100 anni fa, il 3 settembre 1922, veniva infatti disputata la prima gara all’Autodromo Nazionale di Monza, che divenne in quel momento, il quarto circuito permanente della storia degli sport motoristici, dopo quello di Milwaukee, quello britannico di Brooklands e il leggendario ovale di Indianapolis, l’unico rimasto insieme a quello brianzolo.

La costruzione di quello che veniva chiamato nelle cronache dell’epoca "Circuito di Milano", un po’ comicamente a pensarci oggi, fu decisa nel gennaio di quello stesso 1922 dall’Automobile Club proprio di Milano, per festeggiare il 25° anno dell’associazione, e come sede fu scelto il Parco di Monza. Questa decisione scatenò subito violente polemiche, che da parte degli ambientalisti durano ancora oggi ed è uno dei motivi, oltre che quello delle altissime velocità che vi si raggiungono specialmente in Formula 1 malgrado l’inserimento nel corso degli anni di svariate chicane, per i quali un impianto sportivo così importante viene messo in discussione un anno sì e l’altro pure.

Il progetto iniziale prevedeva una pista di 14 km ma alla fine, dopo che il 26 febbraio Felice Nazzaro, uno dei migliori piloti dell’epoca, e Vincenzo Lancia, il fondatore dell’omonima casa automobilistica, avevano tracciato il primo solco del futuro circuito, si dovette ripiegare, per il minore impatto ambientale, su un circuito di 5,5 km più un anello di alta velocità di 4,5 km per un totale di 10 km esatti. La Società Incremento Autodromo e Sport (SIAS) presieduta dal senatore Silvio Crespi si accordò con l’Opera Nazionale Combattenti, l’ente a cui era affiliato il Parco.

I lavori, eseguiti dall’Impresa Piero Puricelli, iniziarono solo il 15 maggio, dodici giorni dopo l’approvazione del progetto definitivo, a meno di quattro mesi dalla data prevista per la seconda edizione del Gran Premio d’Italia, che sarebbe stata ospitata dal nuovo impianto dopo che il 4 settembre 1921 si era disputata la prima edizione sul circuito stradale di Montichiari, in provincia di Brescia, di 17,3 km da ripetere 30 volte e che aveva visto la vittoria del francese Jules Goux su Ballot alla media di 144,736 km/h. I lavori, comprendenti le strade di comunicazione interne, le tribune e i box, furono completati in soli 110 giorni, un record per un impianto di quella portata. Nel frattempo, il 28 luglio, Nazzaro e Pietro Bordino, altro grande pilota, la percorsero per la prima volta al volante di due Fiat 501, mentre le auto da corsa vi fecero il loro primo ingresso di prova il 20 agosto.

E si arriva così al fatidico 3 settembre, quando, alla presenza del presidente del consiglio Luigi Facta (colui che cadrà meno di due mesi dopo a causa della cosiddetta "marcia su Roma") e sotto la pioggia per gran parte della sua durata, si disputa la gara riservata alle cosiddette Vetturette, 1500 cc di cilindrata e 450 kg di peso minimo. Alla partenza si schierano nove vetture, delle quali quattro sono Fiat, che dopo 60 giri e 600 km si classificano ai primi quattro posti. A vincere, dopo essere partito a sorte dalla prima fila (le qualifiche erano ancora di là da venire) è Bordino sul modello 501 per le corse, che completa la distanza in 4h28’38”6 alla media di 134,007 km/h. Secondo è Enrico Giaccone a oltre cinque minuti e mezzo, terzo Evasio Lampiano a quattro decimi da Giaccone, quarto Carlo Salamano a quasi sette minuti da Bordino. Quinto, a quasi un’ora dal vincitore, la prima vettura non Fiat, la Chiribiri di Maurizio Ramassotto.

Il successivo 8 settembre si corre il Gran Premio motociclistico delle Nazioni con la vittoria assoluta di Amedeo Ruggeri su Harley Davidson 1000 e con quella di Ernesto Gnesa con la Garelli 350 due tempi nella classe 500. Il 10 settembre è la volta del Gran Premio d’Italia, riservato a vetture da 2000 cc e peso minimo di 650 kg. Alla vigilia, durante il sabato delle prove libere, come si chiamerebbero oggi, c’è la prima delle tante tragedie di questo circuito, la morte di Gregor Kuhn, pilota dell’Austro-Daimler, e il ferimento del suo meccanico e compagno di abitacolo Robert Felder. La marca austriaca si ritira in segno di lutto dalla gara dell’indomani, prevista stavolta su 80 giri per 800 km totali, che dei 38 iscritti vede al via solo 8 piloti, tra i quali tre della Fiat e lo spagnolo Pierre de Vizcaya con la Bugatti, per la cui partecipazione pare siano state fatte pressioni sul costruttore, Ettore Bugatti, che non voleva gareggiare a causa della superiorità delle Fiat, per schierare il suo pilota al via, cosa che avrebbe comportato il rinvio della partenza dalle 9 alle 9,30 del mattino.

La vittoria, sotto gli occhi di una folla incredibile di centomila spettatori entusiasti, va, ancora una volta come una settimana prima e ancora una volta con la pioggia che ostacola lo svolgimento della corsa nella prima parte, a Bordino, su Fiat 804, in 5h43’13" alla media di 139,853 km/h, inferiore a quella fatta registrare da Goux un anno prima a Montichiari. Secondo a 8’22" è Nazzaro, compagno di squadra di Bordino. Solo un’altra vettura arriva al traguardo: quella dello spagnolo Pierre de Vizcaya su Bugatti, staccato di 4 giri e fermato dall'invasione di pista da parte del pubblico: nonostante non abbia completato tutti gli 80 giri in programma (non come oggi, quando se uno è doppiato viene comunque fermato dalla bandiera a scacchi), cosa che con i regolamenti di allora comporterebbe la squalifica, viene ugualmente classificato in terza posizione. La terza Fiat, quella di Giaccone, rimane ferma alla partenza con la trasmissione fuori uso.

Dopo queste prime tre gare, tutto il resto, come si dice, è storia, fatta di molte gare memorabili ma anche di tragedie. Il Gran Premio d’Italia da allora si è disputato ogni anno quasi ininterrottamente (quella che andrà in scena domenica 11 settembre sarà la sua novantaduesima edizione, l'ottantasettesima a Monza), tranne nel 1929 e nel 1930 in seguito alla tragica morte di Emilio Materassi e di 27 spettatori nel 1928, e poi dal 1939 al 1946 a causa della guerra. Inoltre, dal 1922 in poi, la gara si è sempre disputata a Monza tranne nel 1937 (Livorno), 1947 (Milano, per davvero!), 1948 (Torino, al Valentino), e infine nel 1980, quando a Imola si corse l’unica edizione del Gran Premio d’Italia non disputata a Monza a partire dalla nascita del campionato del mondo di Formula 1 nel 1950.

Il circuito è stato modificato innumerevoli volte, per esempio con la creazione della curva Parabolica al posto della vecchia doppia curva di porfido nel 1955, lo stesso anno in cui si corse per la prima volta sul rifatto anello di alta velocità, poi abbandonato, e poi con l’introduzione delle chicane, a poco dopo la metà del rettilineo dei box che inizialmente arrivava fino alla curva grande, ora curva Biassono, poi alla curva della Roggia e infine alla curva Ascari, precedentemente detta curva del Vialone. Queste chicane, pur snaturandone in nome della sicurezza le caratteristiche originali, rimaste bene o male quasi intatte fino al 1971 (anno della gara più bella della storia della Formula 1 con i primi cinque che tagliarono il traguardo nello spazio di 61 centesimi), non hanno tolto al circuito di Monza la nomea di vero e proprio “tempio della velocità”. E a dispetto di tutti coloro che già pochi anni dopo la sua nascita ne volevano la morte, a 100 anni è più vivo che mai.

lunedì 29 agosto 2022

Expected rimorchi (o colpi di fulmine reciproci)

Dopo un bel po' di tempo voglio tornare a raccontare su questo spazio la mia eccitante vita personale, che se possibile è ancora più entusiasmante di quella lavorativa. Avete presente quella statistica del calcio chiamata "expected goals", e cioè quanti gol ci si aspetta che una determinata squadra possa segnare in una determinata partita? No? Beh, non vi siete persi niente. È una statistica completamente inutile, se non forse per chi scommette. Ma c’è un'altra statistica ancora più inutile, nel senso che il risultato finale è scontato, perché è sempre lo stesso. Questa statistica riguarda me, ed è chiamata "expected rimorchi", oppure "expected colpi di fulmine reciproci".

Ormai da quasi tre anni esco di casa sempre più raramente, visto che da gennaio 2020 non faccio più trasferte sciistiche e visto che né nel 2020 né quest’anno sono riuscito a passare nemmeno un giorno al paesello durante l’estate. Pertanto, tolto qualche ritrovo estemporaneo con i pochi amici che mi sono rimasti fedeli e tolte le visite settimanali a mio papà, anch'esse diradatesi paurosamente negli ultimi due mesi a causa dei continui guai alla macchina, il massimo della libidine per me è la puntatina bisettimanale all’Esselunga. E qui entra in scena la statistica di cui sopra.

Di solito, il numero di questi potenziali rimorchi, o colpi di fulmine reciproci che dir si voglia, non supera i cinque-sei casi al giorno, se proprio va di extralusso arriviamo a dieci-dodici. Questa mattina però, complice la macchina che da più di una settimana è nelle mani del meccanico, grazie ai due passi per arrivare alla fermata dell’autobus, al percorso in autobus, a un’altra passeggiatina per vedere se la mia macchina esisteva ancora o se l’avevano rottamata dalla disperazione, a un’altra passeggiatina per raggiungere l’Esselunga, al giro di tutti i reparti dell’Esselunga per fare la spesa e poi al ritorno a casa in autobus, con annesse passeggiatine Esselunga-fermata di partenza e fermata di arrivo-casa, il numero di potenziali rimorchi o colpi di fulmine reciproci ha raggiunto la ragguardevole cifra di 24, che non avevo mai raggiunto e che probabilmente non raggiungerò mai più.

Come spiegare questa cifra? Forse perché sono tornate tutte dal mare e si sono rituffate immediatamente nella vita e nella spesa di città girando per strada e al supermercato in abiti ancora quasi marinareschi. E questa quota sarebbe potuta essere addirittura di 28 se 3 non fossero state accompagnate da marito o fidanzato, e una, forse la più bella di tutte, era col bambino piccolo nel passeggino. Quindi già in questi quattro casi il rimorchio o colpo di fulmine reciproco era irrealizzabile, ma anche negli altri 24 il numero di realizzazioni è stato sempre lo stesso: zero assoluto. Di queste 24, due soltanto mi hanno lanciato uno sguardo prolungato, probabilmente di compatimento, e una uno sguardo dello stesso tono ma pure un po’ distratto mentre si accendeva una sigaretta. Le altre, come se non esistessi.

Avete capito adesso perché questa statistica è ancora più inutile degli expected goals? Perché la percentuale di realizzazione è sempre la stessa: ZERO! E avete capito adesso perché la mia vita personale è se possibile ancora più entusiasmante di quella lavorativa (che di proposito non voglio più raccontarvi), senza contare che ormai avere la macchina è un optional e che a settembre dovrò pure montare l’impianto gpl per circolare anche solo nelle straducole della periferia dove vivo all’interno del comune di Milano? Quindi, visto che la percentuale realizzativa è nulla, meglio avere gli "expected rimorchi" o "expected colpi di fulmine reciproci" su Instagram. Tanto lì si sa già che il risultato finale, rispetto alla vita reale, non cambia. Ma almeno lì, se fai un complimento sincero, non vedendoti in faccia, in genere lo accettano.

P.S: mentre stavo finendo di scrivere questo sproloquio mi hanno telefonato avvisandomi che la macchina è pronta, quindi adesso esco, e tenete presente che quella cifra di 24 potrebbe anche aumentare.

giovedì 25 agosto 2022

Folle, ultraveloce, leggendario: il vecchio Spa-Francorchamps di 14 km

Tutti si ricordano del vecchio Nürburgring, il mitico Nordschleife lungo quasi 23 km, la pista più difficile e più tecnica della storia dell'automobilismo, ma il motivo per cui tutti se lo ricordano è il gravissimo incidente di Niki Lauda dell'1 agosto 1976, che di fatto decretò l'inizio della fine di questo leggendario circuito, sacrificato dopo quel giorno sull'altare della sicurezza. Sono sicuro invece che molti meno si ricordano di un tracciato altrettanto leggendario: il vecchio circuito di Spa-Francorchamps, lungo poco più di 14 km, più del doppio di quello attuale.

Se il vecchio Ring era un concentrato inimitabile, e pericoloso, di curve lente e veloci, di saliscendi, tanto da renderlo il tracciato più completo e difficile di tutti i tempi, il vecchio Spa era un circuito ultraveloce e, se possibile, ancora più pericoloso. Peraltro i luoghi dove sono i due tracciati nella loro versione attuale, uno in Germania e uno in Belgio, sono distanti solamente poco più di 100 km e sono, anzi, erano perché il nuovo Nürburgring ne è fuori, entrambi immersi in una foresta: il Nordscheife, non a caso noto come l'”inferno verde", in quella dell'Eifel, il circuito vallone in quella delle Ardenne.

Ma veniamo, appunto, al vecchio tracciato di Spa-Francorchamps. Fu ideato su strade aperte al traffico nel 1920 da due signori chiamati Jules de Thier e Henri Langlois Van Ophem, la cui idea era di organizzare corse automobilistiche su un percorso che collegava i paesi di Stavelot, Malmedy e Francorchamps, quest'ultimo frazione di Stavelot a circa 5 km dal tornante La Source, una delle poche curve del vecchio tracciato sopravvissute anche oggi, e a circa 10 km dalla città di Spa, da qui pertanto la definizione di circuito di Spa-Francorchamps.

Il layout originale era di 15 km e aveva un paio di differenze fondamentali rispetto a quello che ospiterà 18 Gran Premi iridati dal 1950 al 1970. La prima era che subito dopo la linea del traguardo, invece di imboccare quello che è attualmente il tratto più mitico della Formula 1, la sequenza sinistra-destra-sinistra dell'Eau Rouge-Raidillion, si deviava con una secca curva a sinistra verso un tornantino chiamato Virage de l'Ancienne Douanne, per poi ricongiungersi alla strada proveniente da Raidillion sul rettilineo del Kemmel. La seconda riguardava la zona di Stavelot, dove in seguito vennero affrontate due curve verso destra molto veloci, invece in origine il circuito deviava in un breve tratto tortuoso. Su questo layout si disputarono dal 1924 la 24 ore di Spa e dal 1925 al 1937 sette edizioni del Gran Premio del Belgio.

Il 1939 fu l'anno in cui comparve per la prima volta l'Eau Rouge-Raidillion, poi, nel 1947, fu modificato anche il tratto di Stavelot, così il circuito divenne più corto di circa un chilometro quello che era in origine e decisamente più veloce, tanto da diventare nel corso degli anni il più veloce della Formula 1, anche di quello francese di Reims o di Monza dell'era pre-chicane. Un circuito che era una vera sfida alla morte per quei veri e propri cavalieri del rischio che erano i piloti automobilistici di allora. I punti pericolosi, dove si andava a velocità supersoniche, e con zero vie di fuga, erano innumerevoli, da Burnenville alla curva di Malmedy alle vecchie curve di Blanchimont, a quella de La Carriere. Ma soprattutto, c'era il tratto che può essere definito il più pericoloso di tutta la storia della Formula 1: la esse di Masta, posta all'incirca a metà percorso in mezzo a due lunghissimi rettilinei, uno proveniente da Malmedy e uno che conduceva a Stavelot.

Consisteva in una combinazione sinistra-destra da percorrere a oltre 300 km/h in mezzo a un gruppo di case poste appena oltre il ciglio della strada. Tutto il circuito però, essendo stato concepito su strade ordinarie, era caratterizzato dalla presenza a bordo pista non solo di case, ma anche di pali telegrafici contro cui purtroppo non era inusuale andare a schiantarsi, per non parlare dei fossati in cui potevano finire le vetture. Se ci mettiamo poi il fatto che in quella zona c'è sempre stata la variabile pioggia, si può capire quanti pericoli comportasse gareggiare sul vecchio Spa-Francorchamps: oggi invece si è arrivati all'eccesso opposto, con partenze o intere gare dietro alla safety-car sotto il diluvio, come accaduto l'anno scorso proprio a Spa-Francorchamps, il punto più basso di tutta la storia della Formula 1.

Un circuito, il vecchio Spa, composto di una trentina di curve, fatto per supereroi, sul quale qualcuno ci ha lasciato la vita, come Chris Bristow e Alan Stacey, entrambi morti durante il tragico Gran Premio del 1960, nelle prove del quale Stirling Moss si fratturò le gambe in un incidente che gli compromise per l'ennesima volta l'assalto a un titolo mondiale che non riuscì mai a conquistare. Qualcuno ci ha anche chiuso la carriera in Formula 1, come Mike Parkes nel 1967, e qualche altro ha rischiato di chiudercela, come Jackie Stewart, schiantatosi sotto il diluvio a Masta nel 1966 ed estratto dalla vettura con la tuta impregnata di benzina.

Fu proprio lo scozzese, che odiava il circuito belga proprio come il suo connazionale Jim Clark, che pure ci vinse quattro volte consecutive, due delle quali sotto diluvi memorabili, a guidare la crociata contro Spa-Francorchamps. Nel 1969 la gara infatti non fu disputata, la Formula 1 vi tornò nel 1970 per l'ultima volta con quel layout e a vincere fu il messicano Pedro Rodriguez a oltre 240 all'ora di media. Poi, dato che le misure di sicurezza introdotte per l'occasione, tra cui una chicane a Malmedy, furono ritenute insufficienti, il Gran Premio del Belgio fu ospitato prima da Nivelles e poi da Zolder, e tornò a Spa-Francorchamps solo nel 1983 sul circuito rinnovato e dimezzato, inaugurato dal Gran Premio motociclistico del 1979 e molto simile a quello di oggi, per poi essere di nuovo la sede fissa della gara a partire dal 1985. Su quello vecchio invece si continuò a correre la 1000 km di Spa fino al 1975 e il Gran Premio motociclistico e la 24 ore fino al 1978, poi basta.

Il nuovo circuito è uno dei pochi tracciati veri rimasti in Formula 1, e infatti viene messo in discussione ogni anno, così come altri luoghi storici del Circus come Monza, Silverstone e persino Montecarlo, eppure con quello vecchio ha in comune ben poco: solo la terribile Eau Rouge-Raidillon e il tornantino La Source, che sul vecchio tracciato era l'ultima curva del giro mentre adesso è la prima. Esclusa la zona di Blanchimont, che però è stata completamente rifatta, comprese le varie versioni della chicane Bus Stop, tutto il resto non c'è più. O meglio, c'è ancora, ma ovviamente solo per la viabilità di tutti i giorni. E solo per la curiosità di quelli, come il sottoscritto, che si vanno a vedere su Youtube come sono adesso le strade che lo componevano, e che potete vedere nel video sottostante a cura del bellissimo sito circuitsofthepast.com, che tiene viva la memoria dei circuiti ormai dimenticati e abbandonati dalla Formula 1. Come quello di Spa-Francorchamps versione 14 km.



lunedì 12 luglio 2021

The Day After

Foto: Adnkronos

Alcune considerazioni sparse su una giornata che poteva essere ancora più epocale di quello che è stata, e per me lo è stata comunque, dato che per la prima volta ho visto un italiano in finale a Wimbledon e una vittoria della Nazionale di calcio agli Europei. Non a caso la data è l’11 luglio, lo stesso giorno della vittoria del Mundial ’82. Le mie considerazioni saranno molto terra-terra, al contrario di quelle che fanno certi grandi giornalisti tuttologi che un giorno scrivono che Mancini è stato imbrigliato tatticamente da Luis Enrique e poi, il giorno della vittoria, saltano sul carro del vincitore dicendo che ha fatto tutto alla perfezione.

Atto primo. Tutti hanno detto che Matteo Berrettini esce a testa alta dal torneo di Wimbledon e dalla finale. Verissimo, e dobbiamo solo dirgli grazie per essere stato il primo tennista di casa nostra, donne comprese, nella finale di un singolare del torneo più importante del mondo. Tuttavia a me più di un rimpianto dopo quel primo set vinto rimane. Avrei voluto vederlo più aggressivo nei game di risposta e negli scambi dal fondo, ma è chiaro che stava giocando con la macchina sparapalline più efficace e noiosa di tutta la storia del tennis e quindi non era per nulla facile. Più in generale però avrei voluto vederlo più cattivo agonisticamente, tanto più perché era alla sua prima finale e non aveva niente da perdere. Ecco, io continuo ad avere l’impressione che un esponente della nuova generazione di tennisti, che avrebbero già dovuto vincere qualcosa di molto importante (Thiem, vincitore a New York ma solo per un incredibile autogol di Djokovic, Tsitsipas, Zverev, Medvedev, Shapovalov, per non parlare di Kyrgios, ma qui si entra nel campo psicanalitico pesante) quando incontra uno dei tre più vincenti della storia del tennis (Federer, Nadal e Djokovic), sia sempre un po’ in soggezione. Cosa che fino a 20-30 anni fa non accadeva quando un giovane rampante incontrava uno dei più forti del mondo. Era un altro tennis, è vero, tecnicamente e soprattuto come preparazione fisica, e si arrivava più presto a vincere dei Major, ma forse per questo i fuoriclasse di una volta avevano la sfrontatezza che i tennisti di oggi, giovani ma non così giovani, non hanno. Purtroppo Berrettini non fa eccezione a questa regola che vale per i tennisti contemporanei e sinceramente non vedo nemmeno tutti quei margini di miglioramento che tutti sono convinti che ci saranno: merita di stare tra i primi del mondo ma comincerà a vincere, forse, quando Djokovic, Nadal e Federer (che di fatto si sta già preparando) appenderanno racchetta e scarpe al chiodo. Ma ovviamente spero di sbagliarmi.

Atto secondo. In un paese composto da 60 milioni di commissari tecnici della Nazionale italiana non ricordo un ct che li abbia messi tutti d’accordo come Roberto Mancini, neanche Bearzot, che fino al primo gol di Rossi in Italia-Brasile veniva massacrato da tutti, ma proprio da tutti. Il trionfo europeo è soprattutto del Mancio, che ha risollevato e ridato gioco a una Nazionale che tre anni fa sembrava morta e sepolta. Non ricordo che qualcuno si sia lamentato delle formazioni titolari che ha messo in campo o delle sostituzioni che ha fatto, forse perché tutti sapevano che chi giocava, o chi entrava dalla panchina, si sarebbe fatto trovare pronto e avrebbe contribuito alla causa, vedi Bernardeschi in occasione dei rigori contro la Spagna e l’Inghilterra. Mancini ha costruito una Nazionale unita come forse nessun’altra, la cui forza è quella del gruppo, non quella dei singoli: solo Donnarumma è un autentico fuoriclasse, e forse, ma solo forse, lo sono anche Federico Chiesa, Jorginho e Spinazzola, per il resto alzi la mano chi considera, per esempio, Bonucci e Chiellini superiori a Cannavaro e Nesta, per non parlare del confronto quasi imbarazzante con Baresi e, prima ancora, con Scirea. Mancini è lo stesso, ma ben pochi se lo ricordano, che ha riportato al titolo della Premier League il Manchester City dopo 44 anni di digiuno, anche se da qualche anno sembra che a vincere il campionato inglese tra gli allenatori italiani sia stato solo Claudio Ranieri e non anche Ancelotti e Mancini prima di lui e dopo di lui Conte, solo perché per un anno, e solo per un anno, gli è andato tutto bene con una squadra di scappati di casa. Non amo autocitarmi, e non ho nemmeno le doti divinatorie dei grandi giornalisti tuttologi fini analisti di cui sopra, ma dalle storie che ho pubblicato subito dopo le prime partite di questi Europei contro la Turchia e contro la Svizzera e che potete leggere in fondo a questo post avevo intuito, pur non sbilanciandomi in pronostici, che questa Nazionale poteva andare molto lontano, più lontano ancora di quella dei Mondiali di Italia 90, che rimaneva per me l'ultima grande nazionale che abbia visto prima di questa. Sono contento, per una volta, di averci indovinato.

P.S.: e ora i Giochi di Tokyo, che spero siano un’altra grande avventura per lo sport italiano.


sabato 8 agosto 2020

Un ordinario, o quasi, sabato di sport

Un breve (spero) resoconto semiserio (più serio che semi) del mio sabato sportivo odierno davanti alla tv, anzi, davanti a due computer, tipico del più tipico italiano medio sedentario quale sono sempre stato. Una giornata che, come ho già scritto in una storia di Instagram, mi ha fatto tornare ragazzino, oppure ai tempi di quando ero in una redazione multisport. Un bel segno, perché lo sport sta finalmente ripartendo, nonostante la situazione Covid sia tutt’altro che tranquilla.

Da questo resoconto rimane esclusa la Champions di stasera, ma anche questo l’ho già scritto nella suddetta storia. Un po’ perché, come al solito, l’Inter non c’è, e un po’ perché dal triplete del 2010, dopo il quale mi sono sentito appagato e ripagato di tante sofferenze patite nei 42 anni precedenti, se ho visto 20-25 partite di calcio dal 2013 a oggi, non solo dell'Inter (di cui ne avrò viste massimo due o tre) ma in totale, sono già tante. In pratica, sono pronto per (non) guardare lunedì la partita tra Inter e Bayer Leverkusen dei quarti di Europa League. E comunque, c'è sempre una sola parola: #amala.

MOTOMONDIALE: ho detto pubblicamente che quest’anno tifavo Bagnaia e Quartararo. Il primo ieri si è fratturato, il secondo è in testa al campionato MotoGP ma oggi è caduto perdendo la pole. Traete voi le conclusioni.

FORMULA 1: A Silverstone domani si disputa il Gran Premio del 70° anniversario della nascita del Mondiale, peraltro già scoccato lo scorso 13 maggio, su un circuito che definire lo stesso di allora è un tantino scorretto visto che oggi ci sono 18 curve e 70 anni fa solo 8. In ogni modo Bottas, detto il sottovalutato, nelle qualifiche ha fatto 13, nel senso di numero di pole position, tante quante Graham Hill, Jack Brabham, Jacky Ickx, Jacques Villeneuve, Juan-Pablo Montoya e Mark Webber. Beffato il caposquadra Hamilton di 63 millesimi. Terzo il redivivo Hulkenberg sulla discussa Racing-Point, il tedesco non era così avanti in griglia, a parte un secondo posto in Austria nel 2016, da sette anni. Ferrari sempre più in Zona Rossa, e non si intende quella a causa del Covid.

MILANO-SANREMO: a un certo punto pensavo di essere in un giorno della seconda metà di marzo, ma poi mi sono reso conto che le temperature sono un tantino diverse e soprattutto non c’era, purtroppo, la di solito concomitante Coppa del Mondo di sci alpino. Per il resto, a parte qualche fuga poi annullata tranne l’ultima, non ho visto grande distanziamento sociale. Perfino i primi due, il vincitore di oggi Van Aert e il vincitore dell’agosto scorso, pardon, del marzo dell’anno scorso, Alaphilippe, si sono esibiti in un abbraccio post traguardo per lo meno inconsueto, visto che di solito volano più bici che baci e imprecazioni che abbracci da parte degli sconfitti. Nota di merito per Van Aert: è il fresco vincitore delle Strade Bianche nonché pluriiridato di ciclocross, quindi proprio scarso non è.

TENNIS: Camila Giorgi non è mai una tennista banale e nel torneo di Palermo l’ha confermato. Ha fatto meno regali del solito e sembrava che fosse sulla strada per diventare finalmente una vincente, anche per l’assenza apparente di quel genio del padre ma soprattutto per la presenza di una persona che invece è molto brava e competente, la capitana azzurra di Fed Cup Tathiana Garbin. E invece, dopo aver dominato il primo set contro la francese Fiona Ferro vincendo i primi cinque game, è stata a sua volta dominata nel secondo, poi nel terzo è mancata nei momenti decisivi e l’ha perso per 7-5 fallendo la qualificazione alla sua prima finale sulla terra rossa nel circuito maggiore. Alla sfida decisiva approda quindi la 23enne transalpina di padre italiano e madre belga, numero 53 del mondo, che affronterà domani l’estone Anett Kontaveit, numero 22 del ranking, che in questo torneo ha sofferto solo contro la nostra piccola grande Elisabetta Cocciaretto e che oggi ha spazzato via per 6-2 6-4 la numero 1 del torneo e 15 del pianeta, la croata Petra Martic. Un bilancio comunque finalmente positivo per l’Italia femminile che sta cominciando a riveder le stelle dopo qualche anno di difficoltà.

P.S.: dato che uno dei miei innumerevoli difetti è di essere una persona dalle poche idee e per di più confuse, sono alla ricerca di un nome per quella che vorrei diventasse una rubrica più o meno fissa di miei resoconti, meglio se semiseri come questo, sui social e su questo blog. Qualcuno di voi miei innumerevoli lettori ha dei suggerimenti? Se sì, vi ringrazio in anticipo.

venerdì 5 giugno 2020

Il 5 giugno 2010 lo storico trionfo di Francesca Schiavone al Roland Garros

Esattamente dieci anni fa si concretizzò un trionfo che pochi avrebbero ipotizzato alla vigilia del torneo, e cioè quello di Francesca Schiavone al Roland Garros, prima tennista italiana della storia a vincere un torneo del Grande Slam in singolare. A questo evento epocale sarebbe seguito cinque anni più tardi un altro evento e un altro trionfo ancora più epocale, quello di Flavia Pennetta agli US Open in una storica finale tutta azzurra contro Roberta Vinci.

Quel 5 giugno 2010, invece, nell’atto decisivo del torneo più importante del mondo per quanto riguarda la terra battuta, Francesca, soprannominata “Leonessa”, numero 17 del tabellone parigino, che avrebbe compiuto 30 anni il successivo 23 giugno, se la vide contro l’australiana Samantha “Sam” Stosur, di quattro anni più giovane di lei essendo nata a Brisbane il 30 marzo 1984, numero 7 del torneo e che era, proprio come la tennista milanese, alla sua prima finale in un Major. Francesca arrivò a quella partita decisiva avendo perso un solo set, il primo di quel suo magico torneo, contro la russa Regina Kulikova, alla fine sconfitta col punteggio di 5-7 6-3 6-4, poi mise in riga nell’ordine l’australiana Sophie Ferguson con un doppio 6-2, la cinese Li Na, numero 11 del tabellone, per 6-4 6-2, la russa Maria Kirilenko con un doppio 6-4, nei quarti la danese Caroline Wozniacki, testa di serie numero 3, per 6-2 6-3 e in semifinale un’altra russa, Elena Dementieva, numero 5 del seeding, all'ultimo anno della carriera pur essendo di un anno più giovane di Francesca, la moscovita si ritirò all’inizio del secondo set dopo aver perso il tie-break del primo per 7-3.
L’approdo in finale da parte della tennista milanese era già di per sé un risultato storico, mai ottenuto prima da un’italiana in un torneo dello Slam, ma la Leonessa non voleva fermarsi, pur dovendo affrontare un’avversaria che nei precedenti confronti diretti l’aveva battuta quattro volte su cinque e che aveva disputato fino a quel momento un torneo se possibile ancora più strepitoso del suo, considerato il livello delle sue avversarie, alle quali cedette complessivamente tre set. Al primo turno batté la giovanissima romena Simona Halep, esordiente in uno Slam, per 7-5 6-1, poi la veterana paraguaiana Rossana de los Rios per 4-6 6-1 6-0, la russa Anastasia Pivovarova per 6-3 6-2, negli ottavi la belga Justine Henin, quattro volte campionessa del Roland Garros e alla sua ultima recita nel Major parigino, per 2-6 6-1 6-4, nei quarti addirittura la numero uno del mondo, la statunitense Serena Williams, per 6-2 6-7 8-6 in una partita epica nella quale annullò anche un match point, o meglio, lo mancò Serena sbagliando un passante di dritto sul 5-4 in suo favore nel terzo set, e in semifinale la serba testa di serie numero 4 Jelena Jankovic, travolta per 6-1 6-2. Ma vediamo come andò quella storica finale di dieci anni fa.

Stosur comincia il match tenendo il servizio a zero nel primo game e fa lo stesso nel terzo, poi nel quinto recupera da 0-30, nel sesto un po’ di fatica anche per Francesca dopo due turni abbastanza morbidi, il secondo dei quali vinto a zero con un ace di seconda. Il primo break, che è anche quello decisivo del primo parziale, arriva nel nono gioco e a subirlo è la tennista del Queensland che Francesca, non dandole mai una palla uguale all’altra, manda fuori giri portandosi sullo 0-40, sulla prima palla break commette un errore gratuito, sulla seconda un suo passante di rovescio viene deviato fuori dal nastro ma la terza è quella buona poiché Stosur, chiaramente sotto pressione, commette doppio fallo. Francesca serve per il primo set, va sotto 0-30. recupera e va a set point che Sam le annulla con un dritto vincente, la milanese si procura un’altra occasione scendendo a rete e chiudendo una volée di rovescio e stavolta Stosur sul secondo set point affonda in rete il rovescio consegnando il parziale all’azzurra col punteggio di 6-4 in 40 minuti di gioco.

Nel terzo game del secondo set la Leonessa si porta sul 15-40 servizio Stosur con un fantastico attacco in back di rovescio ma Sam annulla le due palle break col suo schema preferito, e cioè servizio seguito dal dritto vincente, e alla fine tiene la battuta anche con un clamoroso vincente lungolinea di rovescio in chop. E’ proprio l’australiana nel game successivo a strappare il servizio a Francesca, si procura la sua prima palla break del match con un altro dritto vincente ma non la trasforma mettendo lungo lo stesso fondamentale, tuttavia due dritti sbagliati dalla milanese la mandano avanti prima 3-1 e poi 4-1 dopo aver tenuto la battuta a zero. Tuttavia la nostra campionessa non è soprannominata Leonessa per caso: dopo aver tenuto il proprio servizio, nel settimo gioco vola sullo 0-40 con due punti vincenti, Stosur annulla la prima delle tre palle break con un ace ma sulla seconda mette largo il dritto successivo al servizio: è controbreak per Francesca che subito dopo impatta sul 4-4.

I quattro game seguenti sono tenuti piuttosto agevolmente da chi è alla battuta: entrambe le protagoniste perdono un solo punto ciascuna nei loro due turni di servizio. Si va così al tie-break, che si rivelerà l’apoteosi della carriera di Francesca. La milanese dal 2-2 infila quattro punti vincenti: un passante di rovescio in back, un attacco in controtempo seguito dalla volée di dritto, un dritto dal fondo e una volée bassa di rovescio di una difficoltà abissale, e il primo championship point è subito quello buono poiché Sam manda alle stelle il rovescio. Tie-break vinto per 7-2 e immortalità sportiva assicurata per Francesca che dopo un’ora e 38 minuti di gioco può buttarsi per terra dalla gioia e baciare il rosso del campo centrale del Roland Garros dedicato a Philippe Chatrier, per poi, qualche minuto dopo, alzare al cielo la coppa Suzanne Lenglen spettante alla campionessa del mondo sulla terra battuta e tenerla stretta a sé mentre canta l’inno di Mameli, e infine ringraziare commossa in italiano il suo clan e i suoi tifosi in tribuna aggiungendo il saluto a mamma e papà che sono a casa.

Dodici mesi più tardi Francesca, che nel frattempo era salita al numero 4 del mondo a fine gennaio 2011 dopo i quarti di finale raggiunti agli Australian Open, posizione in classifica raggiunta tre settimane dopo anche da Stosur, arrivò a un passo dal clamoroso bis tornando nuovamente in finale a Parigi, ma contro Li Na, proprio la cinese alla quale aveva concesso solo sei game negli ottavi di finale del 2010, perse la partita decisiva per il secondo trionfo, curiosamente con lo stesso punteggio, 6-4 7-6, col quale aveva vinto la finale dell’anno precedente. Francesca si è ritirata ufficialmente nel 2018 durante gli US Open, chiudendo la carriera con otto tornei WTA vinti, tre Fed Cup, la versione femminile della Coppa Davis, nel 2006, 2009 e 2010, e raggiungendo almeno i quarti di finale in tutti e quattro i tornei dello Slam. Stosur invece è ancora in attività e anche lei ha raggiunto un’altra finale, quella degli US Open 2011, travolgendo a sorpresa per 6-2 6-3 la beniamina di casa Serena Williams diventando ufficialmente la sua bestia nera, i titoli WTA di singolare vinti dall’ormai 36enne australiana sono nove, ma Sam è soprattutto una grandissima doppista, con tre successi nel femminile e tre nel misto nei tornei dello Slam.

E' doveroso però, alla fine della rievocazione di questa impresa sportiva, puntualizzare una cosa riguardante Francesca: la partita più importante della sua vita non è stata quella contro Samantha Stosur, ma contro il linfoma di Hodgkin, che un anno fa ha combattuto e sconfitto. Come sempre, da vera Leonessa, nel tennis e nella vita.

Foto: rolandgarros.com

lunedì 1 aprile 2019

Volto pagina. E mi rimetto in gioco ricominciando da capo


E’ appena cominciato un giorno che per me rappresenta una svolta epocale. Dopo sei anni con dei momenti molto belli ma anche molto brutti, specialmente nell’ultimo inverno, è il momento per me di lasciare Neveitalia. Non parlerò male di questa esperienza durata più di sei anni, anche se forse dovrei farlo per parecchi motivi, e sicuramente alcuni degli ormai miei ex colleghi mi odieranno avendo scoperto dove vado... preferisco invece ricordare solamente le trasferte tramite le quali ho avuto modo di entrare nel mondo che amo, quello dello sci alpino e degli sport invernali, e poco importa che queste trasferte mi abbiano quasi mandato sul lastrico. Da oggi, quindi, si volta pagina, e da sopportato quasi indispensabile (scrivevo dello sport invernale più popolare d’Italia, lo sci alpino, che era il traino della sezione sportiva di Neveitalia), torno finalmente a essere uno dei tanti. Mi rimetto in gioco ricominciando praticamente da capo: il beneficio economico che riceverò dalle due nuove collaborazioni che ho trovato, oasport.it, che mi ha finalmente convinto a saltare sull’altra sponda del fiume dopo un inseguimento durato anni e che è il quinto sito di sport più cliccato d'Italia, e pianetamilan.it (che per un interista non è male...) non è certo il massimo, ma se riuscirò a fare le cose bene su due fronti sono sicuro che le cose per me miglioreranno, specialmente se tornerò a fare gli sport invernali, per i quali OA peraltro mi ha cercato. Le uniche cose che mi preoccupano sono due: che mi parta l’embolo rovinando il rapporto coi miei capi, come purtroppo molto spesso mi è capitato (sono davvero una brutta persona), e che il dolore alla gamba malata, che mi era stata curata quando sono stato in ospedale ma che poi è di nuovo peggiorata, specialmente nelle ultime notti che sono state tremende, aumenti ancora. Spero tanto di poterla sottoporre a una visita medica in un tempo più breve dei due mesi che mi sono stati prospettati e che si possa fare qualcosa quantomeno per alleviare il dolore. A parte questo, come detto, mi rimetto in marcia e cambio aria cercando di mantenere la concentrazione al massimo perché saranno dei mesi davvero impegnativi. Che Dio e mamma da lassù guardino giù e mi aiutino. E mi guardino anche dagli amici, o presunti tali. Per concludere, spero che il resto della mia vita sia migliore di quanto ho vissuto fino a ora.

lunedì 18 marzo 2019

"Don't Stop Believing"

Questa frase, “Don’t Stop Believing”, pronunciata da Massimiliano Ambesi durante la telecronaca insieme a Dario Puppo della mass start maschile di biathlon dei mondiali di Östersund di ieri vinta in modo assolutamente incredibile da Dominik Windisch, dicevo, questa frase, “Mai smettere di crederci”, proprio come ha fatto Dominik, deve diventare la mia filosofia di vita. Caro Massi, non aver paura di inseguire i tuoi sogni, anche se la carta d’identità parla di quasi 51 anni, e smettila di farti il sangue amaro per i paraculi, pallisti e maestrini che ti hanno sempre circondato e che continuano a circondarti. Adesso che hai smesso di bere, tira fuori i coglioni e tira fuori anche un po’ d’orgoglio e amor proprio, cosa che non hai mai fatto in vita tua. Citando liberamente il Sommo Poeta, non ragionar di lor ma guarda e passa. E credi in te stesso.

lunedì 21 gennaio 2019

In quattro giorni ho ritrovato il mio mondo



Quando qualche mese fa sono venuti alla luce tutti i miei problemi sapevo che non avrei, anche per motivi economici, potuto fare nessuna trasferta sciistica. Tranne forse una, la più nel tempo e l’unica che sarei stato in grado di fare. Questa trasferta è quella che ho appena concluso, e cioè quella a Cortina d’Ampezzo. Dove sapevo di trovare tanti amici tra colleghi, ex atleti e componenti lo staff dell’organizzazione, in mezzo ai quali mi sarei sentito stimato e rispettato. 

Mercoledì sono arrivato a Cortina e sono rimasto subito soddisfatto: l’albergo era un due stelle in pieno centro ma la camera era comoda come non ne ho trovate nemmeno in certi tre stelle in cui sono stato. Poi il meteo: all’inizio della settimana era previsto molto brutto e invece, da venerdì a domenica, tutte e tre le gare veloci femminili di Coppa del Mondo in programma sono state portate a termine. La giornata clou è stata l’ultima, domenica, passata da poche ore: noi che eravamo presenti potremmo essere stati testimoni di un fatto storico, e cioè all’ultima gara di Lindsey Vonn. La fuoriclasse statunitense, 82 vittorie in Coppa del Mondo, potrebbe ritirarsi immediatamente anziché arrivare alla fine della stagione a causa dello stato pessimo delle sue ginocchia.

L’altra grande infortunata di quest’anno, la nostra Sofia nazionale, Sofia Goggia per chi non lo sapesse, presente al parterre a disposizione dei media in attesa del suo prossimo ritorno in pista dopo la frattura al malleolo dello scorso ottobre, ha omaggiato di un mazzo di fiori Lindsey quando questa è arrivata al traguardo. Le due amiche-rivali si sono sciolte in un abbraccio bellissimo. Il gesto della Sofia nazionale era stato quasi sicuramente pensato e studiato a tavolino, essendo lei un grande personaggio mediatico per giunta in mano a un grande management ma è stato ugualmente un momento di bellezza disarmante. Dietro gli occhiali da sole io mi sono commosso, non mi vergogno a dirlo.

Questo episodio è l’ennesima conferma che l’ambiente dello sci alpino e degli sport invernali in generale, malgrado i suoi tantissimi difetti, è il migliore che io abbia mai conosciuto e faccio fatica a pensare che ne possa esistere uno migliore. Domenica sera poi il ritorno a casa, con tanto di strappo dato fino a Brescia alla mia occasionale (e gradita) compagna di viaggio e cena con lei e sua mamma in un ristorante pizzeria che si chiama come una famosissima canzone di Lucio Dalla dove ho degustato una strepitosa zuppa di pesce e un altrettanto strepitoso tiramisù.

Quattro giorni, da mercoledì a domenica, per ritrovare il mio mondo. E poco importa se sono tornato a casa all’una di notte passata e sto ancora scrivendo queste righe quando stanno per scoccare le tre. Contento di essere a casa e allo stesso tempo dispiaciuto che la trasferta sia finita. Spero che non sia stata l’ultima della mia vita. Intanto, mi sento bene. No, sono felice.

Credit photo: Ivano Edalini

giovedì 3 gennaio 2019

Caro Schumi...



Caro Michael Schumacher, i primi giorni dell’anno segnano il genetliaco di alcuni personaggi che hanno fatto la storia dello sport. Il 4 è il giorno di Armin Zoeggeler, il più forte slittinista di tutti i tempi, classe 1974, il 5 è quello di Janica Kostelic, classe 1982, neomamma che senza tutti gli infortuni che ha avuto sarebbe diventata la più grande sciatrice di tutti i tempi. Oggi tocca a te, caro Schumi, e per giunta dovresti festeggiare un traguardo importante, dato che sei classe 1969: quello del mezzo secolo. Dovresti perché il 29 dicembre 2013 una caduta sugli sci to provocò danni cerebrali gravissimi tanto da ridurti, probabilmente, a niente più che a un vegetale, come capitò allo sciatore valdostano Leonardo David, caduto al traguardo della discesa di Lake Placid del marzo 1979 e poi deceduto sei anni dopo senza mai più risvegliarsi dal proprio stato di torpore. Caro Schumi, temo che la tua situazione sia esattamente la stessa, tanto più che la tua famiglia non emette mai un comunicato ottimistico sulle tue condizioni di salute. Nei giorni scorsi è stato scritto da qualcuno che non sei più costretto eternamente a letto ma riesci anche ad alzarti in piedi: niente di tutto questo compare nel comunicato dei tuoi cari per il tuo 50° compleanno, il quale si limita a far sapere che la famiglia è felice di festeggiare questa ricorrenza insieme a tutti noi, annuncia la nascita di una app dedicata a te e alle tue vittorie e ribadisce per l’ennesima volta che sei in buone mani e che tutti stanno facendo tutto il possibile per aiutarti. Perdurando il mistero, e anche il doveroso riserbo della tua famiglia sulle tue reali condizioni di salute, non mi resta che ipotizzare quanto detto prima e ricordarti per tutto quello che hai combinato in pista. Nel bene e nel male hai rivoluzionato la Formula 1 e anche la stessa anima della Ferrari: sette titoli mondiali, dei quali cinque consecutivi con la Rossa, e 91 Gran Premi vinti non sono certo bazzecole. Non so se sei stato il più grande: i tamponamenti a Damon Hill grazie al quale vincesti il primo dei due titoli con la Benetton nel 1994 e a Jacques Villeneuve per colpa del quale perdesti quello del 1997 quando eri già al volante di un bolide di Maranello sono macchie indelebili nel tuo curriculum, squalificato ulteriormente da un modesto ritorno alle gare dal 2010 al 2012 al volante di una Mercedes che non era certamente quella attuale. Per non parlare degli sfacciati favoritismi di cui godesti dal tuo team, tipo nel 2002, quando in Austria il tuo compagno di squadra Rubens Barrichello non venne fatto vincere anche se tu in classifica mondiale avevi già una tale posizione di sicurezza da poterti permettere un piccolo regalo al tuo scudiero, che gli venne poi puntualmente fatto poco più di un mese dopo nel Gran Premio d’Europa al Nurburgring. In ogni modo non c’è dubbio che tu, caro Schumi, sei uno dei primi cinque piloti di sempre se non addirittura uno dei primi tre. Preferisco ricordarti nei momenti di tutti i tuoi titoli mondiali vinti con la Ferrari, il primo dei quali a Suzuka nel 2000, il più bello perché per la Rossa arrivava a 21 anni di distanza dall’ultimo. E preferisco ricordare di aver vissuto gran parte della tua epopea a Maranello, anche se sempre dalla redazione e mai sul posto, con le dirette scritte dei Gran Premi giro per giro apprezzatissime da appassionati e colleghi ma non dai capi della redazione per cui lavoravo, che a un certo punto come ringraziamento mi diedero un sonoro calcio in culo e per loro interposta persona cominciò un ostracismo verso di me che dura ancora adesso. Non c’è dubbio che su di te, caro Schumi, c’era sempre da scrivere qualcosa e scrivere di te adesso che probabilmente non puoi nemmeno goderti né il mezzo secolo né la tua pensione dorata è una cosa che mi fa enormemente male. Quali che siano le tue reali condizioni di salute, buon 50° compleanno, caro Schumi, e grazie di tutto.
Il tuo ammiratore e detrattore Max Valle

martedì 1 gennaio 2019

Il giorno dei sogni e delle speranze

Sto cominciando a scrivere queste righe in piena notte di Capodanno e a un’ora, l’1,10, in cui dovrei forse già essere nel mio letto di solitudine. Ma non lo faccio per paura che un petardo-bomba mi svegli di soprassalto. Non che in questo mese di dicembre siano stati particolarmente numerosi anzi, anche oggi a mezzanotte e dintorni si sono sentiti più fuochi d’artificio che altro. Evidentemente anche i lanciatori di petardi e di petardi-bomba si stanno estinguendo, almeno nella mia zona, o perché i loro genitori glielo vietano, oppure perché non hanno i soldi per mandare i figli a comprarli: sembra incredibile ma la crisi sta attanagliando anche la categoria dei bombaroli di Capodanno, cosa che fino all’anno scorso sembrava impossibile. Detto questo, meglio tornare al vostro affezionatissimo che è meglio.

E’ la quarta sera di San Silvestro e notte di Capodanno di fila che passo da solo, la prima è stata la mia ultima al mio adorato paesello, le ultime tre nella casa di Milano, per di più quest’anno è accaduto senza neanche una goccia di spumante con cui brindare, ma tutto questo non è un male: alla prima cosa ormai mi sono abituato, alla seconda devo rinunciare per necessità. Così per tenermi allegro mi sono cucinato un buon cotechino e delle buone lenticchie, entrambi rigorosamente precotti (altrimenti sarei ancora alle prese con piatti e pentole) che mi sono stati regalati nei giorni scorsi insieme ad altre buone cose da mangiare, tra le quali c’è una scatola di cioccolato fondente, che malgrado non sia il mio preferito, sono pronto a far fuori a breve (l’animaletto fatto di cioccolato al latte l’ho invece fatto fuori il giorno stesso dell’arrivo del cesto-regalo).

Domani mattina (stamattina, per chi legge, nda) mi sveglierò come non riesco più a fare, per esempio, a Natale (per quanto l'ultimo mi abbia dato molta serenità) da molto tempo a questa parte: pieno di sogni e di speranze per l’anno appena iniziato. Sarà (è, per chi legge, nda) anche la giornata di due eventi che da sempre mi mettono di buonumore: la gara di Garmisch-Partenkirchen della Tournée dei 4 Trampolini, secondo il mio modesto parere la più bella delle quattro che si svolgono a cavallo tra anno vecchio e anno nuovo, e soprattutto il Concerto di Capodanno di Vienna coi valzer, le polke e le mazurche della famiglia Strauss, che ormai da qualche anno la Rai trasmette imperdonabilmente in differita benché nel mondo sia molto più seguito di quello del Teatro La Fenice di Venezia che ne ha preso il posto nel palinsesto delle dirette.

Perciò, dato che la differita andrà in onda in contemporanea al salto con gli sci, dovrò registrare il concerto viennese e guardarmelo e sentirmelo subito dopo la conclusione degli slalom paralleli maschile e femminile di Oslo che alle 16,30 in punto mi faranno già rituffare nel lavoro. Ma anche questo tutto sommato non è un male: guardandolo e sentendolo come ultima cosa della prima giornata dell’anno manterrò vive le mie speranze che il 2019 sia per me un anno migliore di (quasi) tutti gli anni precedenti. Sì, perché quelle musiche, oltre a mettermi di buonumore e a farmi sentire allegro (solo un  disco qualsiasi dei Beatles ha il potere di mettermi allegria e umore ancora migliori) tengono vive in me aspettative non dico di un futuro ricco di soddisfazioni ma quantomeno un po’ più sereno.

Temo però che dal 2 gennaio questa magia sarà già svanita: tornerò agli "arresti domiciliari", ovviamente lavorativamente parlando, con pochissimi minuti d’aria, a causa della schiavitù di arrivare prima degli altri a ogni costo con le notizie, e aspetterò inutilmente una telefonata (o un Whatsapp o un’altra delle diavolerie moderne alle quali peraltro mi sono abituato fin troppo bene) da parte di qualcuno di quelli che dicono di stimarmi professionalmente o anche da parte di gente che dice di volermi come collaboratore, in entrambi i casi per offrirmi qualcosa di serio. Se una telefonata (o Whatsapp) di questo genere non arriverà, e di questo sono completamente certo, dovrò essere io a darmi da fare una buona volta. Se invece qualcuna di queste telefonate (o Whatsapp) arriverà vorrà dire che mi sono sbagliato.

Ma sognare solo per il primo giorno dell’anno e non farlo per gli altri 364 non significa solo che sono pessimista di natura, ma anche che sono realista. Purtroppo. Lavorare come uno schiavo non paga, anzi, ti rende ulteriormente schiavizzato perché sei accomodante e poi non ti conviene ribellarti. Ecco, intanto sono le 2,30 di notte, bombe di Capodanno non ne sono esplose e posso andare a letto tranquillo in attesa di pubblicare questo mio post, che nel frattempo ho riletto e risistemato, domani mattina (sempre stamattina, per chi legge, nda). P.S.: la foto immortala tutto il mio ottimo cenone di San Silvestro come più sopra descritto. P.S.2: buon 2019 di cuore a tutte e a tutti! P.S.3: con enorme sprezzo del pericolo dei lamenti dei vicini ho karaokato fino alle 3,15 per mettermi ancora di più di buonumore. Ora me ne vado davvero a nanna!

martedì 25 dicembre 2018

Un Natale all'insegna della serenità, della sobrietà e dell'analcolismo


Innanzitutto devo rivolgere un sentitissimo ringraziamento a mia sorella e a mio cognato per non aver consumato bevande alcoliche durante il pranzo di Natale, se l'avessero fatto la tentazione di ricaderci, anche se sono a secco da un mese esatto, sarebbe stata troppo forte. Non ricordo di avere mai festeggiato il Natale a un tavolo completamente analcolico, neanche da piccolo, quando alcol non ne consumavo. Per una volta, dopo il tour de force dei giorni scorsi, ho trascorso una giornata serena e tranquilla, come è giusto che sia il Natale. E prima del pranzo familiare (anche con papà), la visita alla famiglia del mio migliore amico per lo scambio di regali. Il ristorante del nostro pranzo si chiama Borgo di Vione, un'oasi nel verde nel comune di Basiglio a pochi chilometri da Milano 3 che ormai sta diventando un ritrovo abituale per noi, io e papà l'abbiamo scoperto grazie a mia sorella, instancabile ricercatrice di questi posti fuori mano ma caratteristici. Il menu era a base di pesce o di carne, io ho scelto la carne. E ora che sono a casa mi sento parecchio pieno ma in modo diverso dal solito: sto bene. Davvero bene. I miei problemi fisici ora sono altri ma conto di risolvere presto anche quelli. E intanto sono pronto a ripartire col mio sci. Già da domani mattina.