domenica 24 maggio 2020

Chris Amon, il pilota più forte tra quelli che non hanno mai vinto un Gran Premio iridato

Nell'opera a fascicoli "La storia della Formula 1" uscita alla fine degli anni settanta e che ho la fortuna di possedere perché da bambino "stalkerizzavo", come si direbbe oggi, i miei nonni affinché me ne acquistassero i fascicoli, Franco Lini, giornalista e per un anno direttore sportivo della Ferrari, scrisse di Chris Amon: "Non ha mai potuto vincere un Gran Premio eppure avrebbe meritato di diventare campione del mondo". Enzo Ferrari lo definì "il miglior pilota-collaudatore che abbia mai avuto". Queste parole rendono l'idea di quanto fosse forte questo neozelandese, il pilota più perseguitato dalla sfortuna di tutta la storia del Circus, anche se lui, in un'intervista a Mario Donnini di Autosprint, si definiva un pilota sfortunato ma un uomo fortunatissimo per essere sopravvissuto a un'epoca di corse nella quale la morte in pista era all'ordine del giorno.

In 96 Gran Premi iridati nei quali ha preso il via è salito 11 volte sul podio, e tra quelli che non hanno mai vinto è alle spalle di Nick Heidfeld, che ne ha messi insieme 13, e di Stefan Johansson, arrivato a quota 12, ma nessuno dei due aveva neanche lontanamente la classe di Amon, che per la verità due gare di Formula 1 le vinse, l'International Trophy di Silverstone del 1970 e il Gran Premio d'Argentina del 1971 ma non contavano per il titolo mondiale, inoltre si impose nelle Tasman Series del 1969, campionato che si correva con vecchi telai e motori della massima categoria automobilistica, battendo molti dei più grandi campioni dell'epoca, che per tenersi in allenamento d'inverno andavano a correre nell'emisfero australe.

Nato il 20 luglio 1943 a Bulls, nell'Isola del Nord della Nuova Zelanda, Amon sbarca in Europa a 19 anni, nel 1963, chiamato da Reg Parnell per guidare in Formula 1. Debutta al volante di una Lola dell'anno precedente, anche se in versione aggiornata, nel Gran Premio del Belgio, ma aveva partecipato anche alle qualificazioni a Montecarlo due settimane prima guadagnandosi un posto per la gara ma poi dovette cedere la sua vettura al veterano Maurice Trintignant, due volte trionfatore nel Principato. Durante l'anno arriva settimo in Francia e in Gran Bretagna su una vettura non competitiva, due incidenti al Nurburgring e a Monza lo fermano, poi torna in Messico su una vecchia Lotus 24 con motore BRM. All'inizio del 1964 Parnell muore e la scuderia passa al figlio Tim, con cui Amon continua a correre nel 1964 e nel 1965 su una gloriosa ma ormai datata Lotus 25 con la quale arriva quinto in Olanda nel 1964. A Silverstone nel 1965 si qualifica con una Brabham motorizzata BRM della Ian Racing ma ancora una volta deve cedere il suo mezzo a un compagno di squadra, in questo caso proprio al titolare della scuderia.

Nel frattempo si cimenta anche nelle gare di durata e il 19 giugno 1966 trionfa sulla leggendaria Ford GT40 Mk2 con motore da 7 litri del Team Shelby nella 24 ore di Le Mans in coppia col connazionale Bruce McLaren. Quella è l'edizione più incredibile della celeberrima corsa francese, visto che la casa statunitense distrugge la supremazia della Ferrari e visto che i due neozelandesi arrivano sul traguardo in contemporanea con la vettura gemella dell'inglese Ken Miles e di Dennis Hulme (un altro neozelandese!) ma vincono poiché sullo schieramento sono partiti più indietro rispetto ai compagni di squadra e quindi hanno percorso più metri! Lo stesso McLaren tra l'altro ingaggia Amon per correre in Formula 1 con la sua neonata scuderia omonima, ma la seconda vettura non è pronta e quindi quell'anno Chris gareggerà solo in Francia su una Cooper motorizzata Maserati, mentre a Monza, su una Brabham-BRM privata, non riuscirà a qualificarsi.

Per il 1967 Amon viene ingaggiato dalla Ferrari: è la sua grande occasione, e nell'attesa di esordire col Cavallino a Montecarlo, dopo che la casa di Maranello ha disertato il Gran Premio del Sudafrica, continua a vincere nell'endurance, imponendosi nella 24 ore di Daytona e nella 1000 km di Monza, entrambe le volte in coppia con Lorenzo Bandini. Nel Principato è terzo dopo una bella rimonta ma la gara è funestata dalla morte di Bandini nel rogo della sua Rossa alla chicane del porto. E' poi quarto in Olanda e terzo in Belgio, dove l'altro suo compagno di squadra Mike Parkes ha un incidente che gli stronca la carriera. Chiude nuovamente terzo in Gran Bretagna, dove viene ostacolato per 60 giri da Jack Brabham prima di riuscire a passarlo, ed è sul gradino più basso del podio anche in Germania, in seguito è sesto in Canada e settimo a Monza poi, a Watkins Glen, ha la prima concreta occasione di vincere: nell'ultima parte di gara è nettamente più veloce delle Lotus 49 motorizzate col nuovissimo Ford Cosworth e guidate da Graham Hill e da Jim Clark che sono rispettivamente secondo e primo, il neozelandese supera l’inglese e si appresta ad attaccare lo scozzese ma a 12 giri dalla fine la bassissima pressione dell'olio lo costringe al ritiro. In Messico, quando è secondo dietro a Clark dopo essergli partito accanto in prima fila, rimane senza benzina a tre tornate dal termine venendo classificato nono.

Il 1968 inizia con un quarto posto in Sudafrica, poi, a parte Monaco che viene disertato dalla Ferrari, infila tre pole position consecutive: in Spagna, a Jarama, domina fino a quando al 58° giro un guasto alla pompa della benzina lo costringe ad arrendersi; in Belgio, la prima gara della Ferrari con gli alettoni, si rompe il radiatore quando è in piena corsa per il successo; in Olanda è tra quelli che partono con le gomme da asciutto ma poi si mette a piovere e deve sostituirle classificandosi alla fine sesto. In tutti gli altri Gran Premi stagionali non farà più la pole ma non scenderà mai al di sotto della seconda fila. In Francia, dove vince il suo scomodo e giovanissimo compagno di squadra Jacky Ickx, è decimo sotto la pioggia, unico suo grande punto debole. In Gran Bretagna torna sul podio finendo secondo alle spalle dello svizzero Jo Siffert col quale ha ingaggiato un bel duello. Da qui alla fine dell'anno saranno solo ritiri. Sia al Nurburgring sia a Monza finisce in mezzo agli alberi: pauroso soprattutto il suo volo alla prima curva di Lesmo, per fortuna senza conseguenze. In Canada è in testa dall'inizio ed è ormai sicuro della vittoria quando gli si rompe una molla del pedale della frizione e a 18 tornate dal termine si ritira col cambio completamente bloccato, negli Stati Uniti è attanagliato da noie alla pompa dell'acqua, in Messico abbandona per surriscaldamento del motore.

La serie dei ritiri continua nel 1969 anche se all'inizio dell'anno, come detto, vince le Tasman Series imponendosi in quattro gare su sette con una Ferrari Dino 246 Tasmania. Con l'approdo di Ickx alla Brabham rimane praticamente l'unico pilota del Cavallino in Formula 1 e dopo essersi arreso a noie al motore in Sudafrica, ha ancora l'occasione di cogliere la prima vittoria e ancora in Spagna, stavolta al Montjuich, ma la pressione dell'olio gli cala improvvisamente e al 57° giro deve dire ancora una volta addio ai sogni di gloria. A Montecarlo, quando è secondo dietro a Stewart e davanti a Hill, che vincerà la sua quinta gara nel Principato, rompe il cambio al 17° passaggio. Finalmente in Olanda vede il traguardo classificandosi terzo: sembra che la sfortuna lo lasci finalmente in pace ma è un'illusione che dura poco poiché in Francia si ritira per un guasto al motore e in Gran Bretagna gli si rompe di nuovo il cambio. A questo punto Amon, malgrado stia anche provando la nuova 312B con l'altrettanto nuovo motore boxer 12 cilindri, lascia la Ferrari, stufo di non poter disporre di una vettura competitiva. Se ne pentirà amaramente perché l'anno successivo Ickx, tornato a Maranello, e il debuttante Clay Regazzoni, chiuderanno il campionato al secondo e al terzo posto alle spalle di Jochen Rindt, deceduto in prova a Monza e unico iridato postumo della storia.

Per il 1970 Amon approda alla nuova scuderia March motorizzata Ford Cosworth di Max Mosley e Robin Herd ma la musica non cambia: tre ritiri nelle prime tre gare, in particolare a Montecarlo, quando è secondo dietro Brabham, urta contro le barriere di protezione. Rinasce in Belgio, nell'ultimo Gran Premio corso sul vecchio e ultraveloce circuito di Spa-Francorchamps, dove è secondo alle spalle della BRM del messicano Pedro Rodriguez, che l'anno precedente gli ha fatto compagnia alla Ferrari per un Gran Premio a Silverstone e che lo batte per poco più di un secondo malgrado il neozelandese effettui il giro più veloce. Ritiro lampo in Olanda per la rottura della frizione poi in Francia, a Clermont-Ferrand, è ancora secondo stavolta dietro alla Lotus 72 di Rindt. In Gran Bretagna è quinto risalendo dal diciassettesimo posto in griglia, in Germania, a Hockenheim, quando è terzo si ritira per un guasto al motore, è ottavo in Austria e settimo a Monza, terzo in Canada, quinto negli Stati Uniti e quarto in Messico. Una stagione piena di risultati positivi ma con la vittoria che non arriva mai. O meglio, è arrivata il 26 aprile ma in una gara non titolata, l'International Trophy di Silverstone, dove batte il compagno di marca (non di scuderia) e campione del mondo in carica Jackie Stewart.

L'altra vittoria fuori campionato per Amon arriva il 24 gennaio 1971 nel Gran Premio d'Argentina, gara che, ironia della sorte, farà parte del campionato del mondo solamente dall'anno successivo. Nel frattempo Chris è passato alla Matra, scuderia tutta francese anche come motore. In campionato le cose iniziano bene: in Sudafrica è quinto dopo una partenza cattivissima dalla prima fila, in Spagna è terzo, ma poi a Montecarlo e in Olanda effettua altre due partenze disastrose abbinandole con due ritiri, nel Principato dopo 45 giri, a Zandvoort dopo due. In Francia è quinto, poi ancora due abbandoni in Gran Bretagna e in Germania. In Austria la Matra non corre per preparare un nuovo motore e la cosa funziona a Monza dove Amon conquista la pole position e poi in gara getta al vento un'altra occasione incredibile per vincere: per il neozelandese un'altra brutta partenza ma riesce comunque a stare a contatto col gruppetto al comando, a due terzi di gara va addirittura in testa alternandosi con i compagni di fuga ma a sette giri e mezzo dalla fine, mentre sta pulendo la pellicola che copre la visiera, questa gli si stacca completamente dal casco ed è costretto a rallentare chiudendo sesto a oltre mezzo minuto dai primi! Termina l'anno con un decimo posto in Canada e un dodicesimo negli Stati Uniti.

Nel 1972, in Argentina, dove aveva vinto 364 giorni prima, è piuttosto indietro in griglia ma non riesce nemmeno a partire per la rottura del cambio, lo stesso problema lo ferma in Spagna mentre due settimane prima in Sudafrica, quando è quarto, è costretto ai box per problemi di tenuta di strada e finisce quindicesimo. Malgrado una sbandata che nel primo quarto di gara gli fa perdere posizioni è quinto sotto il diluvio a Monaco, poi in Belgio, a Nivelles, a 8 giri dalla fine è terzo e ha da poco stabilito il giro più veloce ma è costretto a rifornirsi di benzina terminando così sesto. Poi ha la più grande occasione per vincere della sua vita e ancora una volta la manca. In Francia, sul circuito della Charade di Clermont Ferrand detto "piccolo Nurburgring”, conquista la pole position, domina letteralmente per 19 giri ma al 20° si deve fermare per la foratura di una gomma, la sosta lo fa ripartire in ottava posizione ma a questo punto rimonta furiosamente effettuando il giro più veloce e classificandosi terzo! Di fatto le chance di successo in un Gran Premio iridato per uno sfiduciato Amon finiscono qui. In Gran Bretagna, a Brands Hatch, come due anni prima si esibisce in un'altra grande rimonta dal diciassettesimo posto in griglia al quarto finale, in Germania rompe lo spinterogeno nel giro di ricognizione, in Austria è quinto, a Monza deve abbandonare al 38° giro quando è terzo coi freni fuori uso, in Canada è sesto e negli Stati Uniti gara subito compromessa, come in Germania, per la rottura di una valvola.

Le ultime quattro stagioni in Formula 1 di Amon sono, di fatto, un calvario. La March lo rivuole ma poi l'accordo non si conclude e lui per il 1973 opta per la bolognese Tecno sponsorizzata Martini, che oltretutto gli vieta di tornare a guidare la Ferrari anche se solo per un Gran Premio, quello di Spagna, come voleva il neozelandese e come voleva il Cavallino, in quanto la sua nuova monoposto non sarebbe stata pronta prima del quinto Gran Premio, in Belgio. A Zolder comunque è ottimo sesto risalendo dalla quindicesima posizione nello schieramento, ma rimane un episodio isolato: tre ritiri in tre Gran Premi e una non partenza in Austria. In Canada è al volante di una Tyrrell vecchio tipo al fianco di Stewart e François Cevert, è decimo e si appresta a correre anche negli Stati Uniti ma a Watkins Glen Cevert muore in prova e la scuderia di patron Ken non disputa la gara. Nel 1974 tenta l'avventura con una vettura che porta il suo nome, progettata da Gordon Fowell e sponsorizzata da John Dalton ma riesce a gareggiare solo in Spagna, oltretutto per soli 22 giri. Ancora una volta nei due Gran Premi nordamericani si presenta con un'altra vettura, la BRM, con la quale è nono a Watkins Glen.

Chiuso il fallimentare esperimento della Chris Amon Racing per mancanza di finanziamenti, il neozelandese decide di smettere con la Formula 1 per dedicarsi alla Formula 5000 ma nell'agosto del 1975 Morris Nunn lo chiama per guidare la Ensign e lui accetta. Disputa con questa scuderia dieci Gran Premi in poco meno di un anno e il suo miglior risultato lo ottiene in Spagna nel 1976 classificandosi quinto. Al Nurburgring poche settimane dopo Niki Lauda è vittima di quell'incidente che anche i non appassionati di automobilismo ricordano, la corsa viene fermata e Amon, già vittima a sua volta di un paio di botti durante l'anno, si rifiuta di presentarsi alla seconda partenza. Chiude baracca e burattini e dice basta con la Formula 1, ma Frank Williams e Walter Wolf lo vogliono per farlo correre in Canada sulla vettura che porta il nome di entrambi. La tentazione è irresistibile, Chris si qualifica con l'ultimo tempo ma una collisione con Harald Ertl gli procura una seria botta al ginocchio sinistro e rinuncia a prendere il via. Alla fine dell'anno Wolf e Williams si separeranno e Jody Scheckter, alla guida della vettura del primo, si classificherà secondo nel campionato del mondo del 1977…

Amon chiuderà definitivamente la carriera nello stesso 1977 dopo aver tentato l'avventura nella Can-Am, campionato nordamericano per vetture sport, e prima di tornarsene in Nuova Zelanda a fare il mestiere di suo padre, prestigioso allevatore di pecore, consiglierà a Enzo Ferrari di ingaggiare un piccolo canadese che aveva adocchiato in Formula Atlantic, campionato di supporto alla Can-Am, e che aveva già esordito in Formula 1 a Silverstone al volante di una McLaren suscitando un'ottima impressione, un tale di nome Gilles Villeneuve. E' deceduto il 3 agosto 2016, pochi giorni dopo aver compiuto i 73 anni. Per concludere, Amon è stato un pilota fortissimo e ancora migliore come collaudatore, con pochi punti deboli, tra questi, come abbiamo detto, la guida sotto la pioggia ma anche certe scelte discutibili fatte durante i suoi anni di attività: a questo proposito 13 scuderie con le quali si è presentato all'inizio di un weekend iridato (e con 11 di queste ha preso il via in almeno un Gran Premio) sono francamente troppe, e infatti questo dato è un record, non si sa però se positivo o negativo. Anche questi fattori, oltre all'immensa sfortuna di cui ho anche troppo diffusamente parlato, gli hanno impedito di figurare nell'elenco dei vincitori di un Gran Premio iridato ed è una vera e propria ingiustizia che uno come lui non sia entrato a far parte di questo elenco.

mercoledì 13 maggio 2020

13 maggio 1950: a Silverstone il primo GP iridato della storia della F1


Sono passati esattamente 70 anni dalla nascita del Campionato del Mondo di Formula 1. Sabato 13 maggio 1950 si disputava infatti la prima gara iridata della storia, il Gran Premio d’Europa sul circuito inglese di Silverstone, ottenuto collegando le piste di un aeroporto militare della RAF della seconda guerra mondiale e che allora era già piuttosto veloce, presentando 8 curve, contro le 18 con le quali è stato snaturato e stravolto al giorno d’oggi, che collegavano i rettilinei delle piste riservate fino a pochi anni prima agli aerei. Il circuito misurava 4,649 km, 2,889 miglia, contro i 5,891 km di oggi.

La corsa vide al via 21 partenti: dieci vetture italiane con quattro Alfa Romeo, con al volante Nino Farina, l’argentino Juan Manuel Fangio, Luigi Fagioli e il beniamino locale Reg Parnell; sei Maserati con il principe Bira, Emmanuel "Toulo" de Graffenried, Louis Chiron, David Hampshire, David Murray e Joe Fry; cinque Talbot-Lago con Yves Giraud-Cabantous, Louis Rosier, Philippe Etancelin, Johnny Claes ed Eugène Martin; e infine sei vetture inglesi, quattro ERA con Peter Walker, Leslie Johnson, Bob Gerard e Cuth Harrison, e due Alta con Geoff Crossley e Joe Kelly.

Balza agli occhi l’assenza della Ferrari: il costruttore modenese ha ritenuto l’ingaggio per questa corsa troppo basso, per cui ha preferito far gareggiare i suoi bolidi a Mons, in Belgio, in una gara di Formula 2, disputata il giorno dopo quella di Silverstone e dominata dalle vetture di Maranello con, nell’ordine, Alberto Ascari primo, Gigi Villoresi secondo e Franco Cortese. Tripletta fu anche a Silverstone, dove le protagoniste assolute furono le "Alfette" 158, che avrebbero potuto anche fare poker. Dopo le qualificazioni le rosse vetture milanesi del quadrifoglio occuparono tutta la prima fila con Farina in pole position col tempo di 1’50”8, Fagioli e Fangio secondo e terzo in 1’51”0 e Parnell quarto in 1’52”2.

La gara, disputata in una bella giornata di sole e davanti a 150.000 spettatori, compresi re Giorgio VI, la regina consorte Elisabeth Bowes-Lyon e la principessa Margaret, non ebbe assolutamente storia per le prime posizioni: Farina transitò in testa per 63 dei 70 giri previsti, Fagioli per 6, dal 10° al 14° e poi al 38° per il gioco dei pit-stop di metà gara e Fangio per uno, il 15°. Neanche i rifornimenti, che per le Alfa duravano all'incirca mezzo minuto ciascuno, spostarono gli equilibri a favore delle altre scuderie. L’unico colpo di scena fu il ritiro di Fangio a 8 giri dal termine, mentre era secondo alle spalle di Farina, per la rottura di un condotto dell’olio causata da un tentativo di sorpasso ai danni del 43enne pilota torinese effettuato poco prima alla curva Stowe e concluso con un urto contro le balle di paglia.

E così Giuseppe, per tutti "Nino", Farina, guarito brillantemente da un incidente subito a Marsiglia poco meno di due mesi prima con conseguente incrinatura di una spalla, tagliò vittorioso il traguardo con 2 secondi e 6 decimi di vantaggio su Fagioli, coprendo la distanza totale di 325,430 km in 2 ore, 13 minuti, 23 secondi e 6 decimi alla media di 146,378 km/h e incassando così gli 8 punti che in classifica spettavano al vincitore, ma ne guadagnò un altro supplementare per aver stabilito già al secondo passaggio il giro più veloce in 1’50”6 alla media di 151,324 km/h. Fagioli, secondo, si prese 6 punti, Parnell, terzo a 52 secondi, 4. I primi del resto del mondo furono i francesi Giraud-Cabantous e Rosier su Talbot-Lago, quarto e quinto e ultimi a prendere punti, 3 e 2, ma staccati di ben due giri dal vincitore.

A tre tornate di distacco, sesta e settima, le due ERA di Gerard e Harrison, ottava a cinque giri e undicesima e ultima vettura al traguardo a sei giri altre due Talbot-Lago, quella di Etancelin e quella di Claes. Per la verità arrivò al traguardo anche Kelly su Alta ma essendo staccato di 13 giri non venne classificato. Disastrose le Maserati, la cui migliore fu quella di Hampshire, nono a sei giri, seguita con lo stesso distacco da quella guidata da Brian Shawe-Taylor, che al 45° giro aveva preso il posto di Fry: allora era consentito che un pilota prendesse il posto di un compagno di squadra durante la gara, addirittura in questo caso anche se non aveva preso parte alle qualificazioni, così come capitò a Tony Rolt, che prese su una delle ERA il posto di Walker, fermatosi ai box per problemi al cambio dopo sole due tornate, ma che capitolò dopo altri tre passaggi.

Gli altri ritirati: Bira e de Graffenried, sulle Maserati, erano stati i più vicini alle Alfa nelle prime fasi della corsa, ma il principe thailandese dovette fermarsi nel corso della 50a tornata all'Hangar Straight per bassa pressione dell'olio quando era settimo, lo svizzero, anche lui quando era settimo, alla 37a per la rottura di una biella. Le altre due vetture della casa del tridente, quelle del veterano monegasco Chiron, autore di una gara totalmente anonima, e di Murray, ruppero rispettivamente la frizione e il motore al 25° e al 45° giro, lo stesso in cui la seconda Alta, quella di Crossley, si fermò per problemi alla trasmissione. Per finire, Martin con la quinta Talbot-Lago abbandonò al nono passaggio per la pressione dell'olio, mentre la quarta ERA di Johnson si fermò dopo soli due giri col motore in fumo.

Otto giorni dopo, a Montecarlo, farà il suo debutto nel mondiale la Ferrari e Ascari, anche favorito da una maxi carambola che alla curva del tabaccaio al primo giro eliminò, tra gli altri, Farina e Fagioli, finirà secondo, doppiato di un giro da Fangio, dominatore assoluto della corsa. Il primo titolo mondiale della storia se lo aggiudicherà Farina, per soli 3 punti su Fangio, vincendo il 3 settembre il Gran Premio di’Italia a Monza e beneficiando del doppio ritiro dell’argentino, prima con la sua macchina e poi con quella del compagno di squadra Piero Taruffi: allora infatti era permesso a un pilota, in grave ritardo o ritirato, di prendere il posto di un compagno di scuderia meglio piazzato di lui o ancora in gara.

Quella volta a Monza, così come a Silverstone a inizio stagione, esultarono Farina e l’Italia e a Fangio andò male, ma il sudamericano si rifarà con gli interessi nel corso degli anni successivi vincendo (con quattro costruttori diversi!) cinque titoli iridati, di cui quattro consecutivi, record rimasto per decenni imbattuto fino all’avvento di Michael Schumacher.

venerdì 8 maggio 2020

50 anni fa usciva "Let It Be", l'ultimo album dei Beatles


L'8 maggio 1970 usciva "Let It Be", l'ultimo album dei Beatles, poco meno di un mese dopo l'annuncio, in data 10 aprile, dell'abbandono del più grande gruppo musicale di tutti i tempi (IMHO) da parte di Paul McCartney.

“Let It Be” non è certo uno dei più memorabili dei Fab Four, malgrado la presenza di perle come il brano che dà il titolo all’album o come “Across the Universe”, o come la trascinante “One After 909”, risalente ai tempi eroici della band, quando non aveva pubblicato nemmeno un disco, tuttavia per raccontare la gestazione del disco fino al parto di quel giorno di mezzo secolo fa ci vorrebbe un libro. Basterebbe dire che fu quasi completamente registrato nel 1969, prima del penultimo album dei quattro di Liverpool ad arrivare nei negozi di dischi, “Abbey Road”, quando la vita del gruppo era già piena di feroci litigi che provocarono, a turno, l’abbandono e poi il rientro di George Harrison e di Ringo Starr e l’insofferenza di John Lennon verso la voglia di leadership unica di McCartney. Ma soprattutto, l’arrivo di Phil Spector al posto dello storico produttore del gruppo George Martin diede il colpo definitivo a una quasi impossibile riunificazione dei quattro ormai ex amici per la pelle.

Il progetto del disco, inizialmente chiamato “Get Back”, era stato concepito da McCartney come un ritorno alle registrazioni dei dischi quasi interamente dal vivo e con limitate sovraincisioni che aveva caratterizzato l’inizio della carriera di Paul, John Lennon, George Harrison e Ringo Starr. Alcune di queste registrazioni finiranno nella versione definitiva del disco e sono tratte dal famoso concerto sul tetto degli Apple Studios in Savile Row, Londra, del 30 gennaio 1969 (la Apple era la casa discografica fondata dai Beatles nel 1968 dopo gli anni gloriosi alla EMI). Ma Spector tirò fuori il progetto dai cassetti in cui languiva da un anno, poiché nel frattempo i quattro si erano dedicati al progetto “Abbey Road”, e ne stravolse lo spirito: l’album alla fine si chiamò “Let It Be” e alcune canzoni furono infarcite di sovraincisioni, in particolare “The Long And Winding Road” fu riempita di cori femminili e orchestra, specialmente archi.

Il lavoro del produttore statunitense fu elogiato da Lennon e Harrison, che l’avevano voluto per far sì che pubblicasse un prodotto decente, ma fece andare su tutte le furie McCartney, che accusò Spector di aver completamente stravolto la sua “The Long And Winding Road”, e cercò di impedirne la pubblicazione, ma senza riuscirvi. Finiva in questo modo la storia di una band i cui componenti non potevano più lavorare insieme da parecchio tempo. Già il famoso “White Album” del 1968, pur essendo un capolavoro assoluto, era stato un lavoro di quattro ragazzi che tendevano sempre più a diventare dei solisti all’interno di un gruppo. Questa tendenza si accentuò con i successivi “Abbey Road” e “Let It Be”, per quanto il risultato finale del primo sia stato nettamente migliore rispetto a quello del secondo.

33 anni dopo lo scioglimento dei Beatles, Paul, su approvazione di Ringo, di George e di Yoko Ono, la vedova di John, pubblicò “Let It Be… Naked”, disco ripulito dalle sovraincisioni di Spector e con qualche canzone differente rispetto all’album pubblicato nel 1970. In questo modo i Beatles tornarono in vetta alle classifiche discografiche, per la gioia dei loro ancora numerosissimi fan, tra i quali ci sono anch’io. Sono sicuro che la mia decina di lettori mi perdonerà ma ho voluto deviare dai miei abituali argomenti sportivi (quelli sulla mia vita privata li ho ormai aboliti perché erano molto letti e mi divertivo molto a scriverli ma non erano graditi alla gente con cui avevo a che fare tutti i giorni) primo, perché sono 50 anni che il mondo è senza i Beatles e secondo, perché sentendo una loro qualsiasi canzone, salvo pochissime eccezioni, o un qualsiasi loro album, compreso il mediocre, per la loro media, “Let It Be”, mi torna immediatamente il buonumore.