giovedì 1 febbraio 2024

Perché Hamilton alla Ferrari è solo marketing (ma spero di essere smentito)


Manca solo l'ufficialità ma ormai è quasi certo: Lewis Hamilton guiderà una Ferrari nel 2025, quando avrà compiuto 40 anni, che comunque è un'età nella quale un pilota può fare ancora bene, al fianco di Charles Leclerc, che ne ha 12 di meno. Ecco le ragioni per le quali secondo me è più un'operazione di marketing molto ben studiata per la Formula 1 e per la Ferrari e non un vero e proprio colpo di mercato.

1) Attualmente la Ferrari è, nella migliore delle ipotesi, la seconda forza del mondiale ma ad anni luce di distanza dalla Red Bull e mi sembra difficile che il gap venga interamente colmato, con le stesse regole vigenti oggi, non dico già dal prossimo mese ma nel corso di tutto il 2024. Chi glielo fa fare a Hamilton, a parte la montagna di soldi che sicuramente guadagnerà, di andare a correre a 40 anni per una scuderia che attualmente non dà le garanzie tecniche né a lui né a Leclerc di poter lottare per il titolo tra un anno? Ma ovviamente spero di sbagliarmi e spero che queste garanzie tecniche siano state assicurate.

2) Leclerc si troverà di fianco un pilota fortissimo, per molti versi leggendario, ma soprattutto ingombrante, che nel corso della sua carriera ha avuto attriti, per usare un eufemismo, in certi casi anche gravi, con molti dei compagni di squadra con cui ha corso, per i quali in pista non ha mai avuto il minimo occhio di riguardo, e che ha sempre preteso che il team per il quale correva fosse interamente ai suoi piedi. Quando non è stato così, botte da orbi. Per averne una conferma, citofonare a casa di Fernando Alonso o di Nico Rosberg. Un ulteriore ostacolo, insomma, verso il percorso di crescita di Leclerc.

3) Il grande sacrificato della Ferrari, Carlos Sainz, dato per mesi dai grandi media a un passo dal prolungamento del contratto, che invece è stato rinnovato solo per Leclerc, vivrà un intero anno da separato in casa, con chissà quale conseguenze sui rapporti con la squadra e sul comportamento in pista. Hamilton vivrà la stessa atmosfera in Mercedes ma con ben altro stato d'animo, visto che lui sette titoli mondiali se li è portati a casa.

Ci guadagnano invece la casa di Maranello, malgrado il probabile cospicuo esborso di quattrini, e Liberty Media, la società padrona della Formula 1: entrambe, con questa grande operazione di marketing, vedono la loro visibilità schizzare alle stelle quando manca ancora un mese all'inizio del Mondiale 2024, guarda caso dopo due anni di crollo di interesse per la massima categoria automobilistica non tanto di spettatori dal vivo ma da casa, in tv e soprattutto sui social.

Infine, credo che abbia ragione Roberto Chinchero quando scrive e dice che per Hamilton il 2025 in Ferrari sarà una sorta di "The Last Dance". Con la differenza che se i Bulls del 1997-1998 erano una squadra ancora molto vincente, e infatti vinse, che si apprestava all'"ultimo ballo" in NBA, dubito che la stessa cosa si potrà dire per la Ferrari dell'anno prossimo.

Insomma, cara Ferrari, per dirla con il buon Carlo Vanzini, non solo adesso bisogna "dare una macchina" a Charles Leclerc, ma anche a Lewis Hamilton. Sperando, naturalmente, che i due non entrino in conflitto, come sempre succede tra compagni di squadra entrambi vogliosi di primeggiare a qualunque costo.

Foto: Getty Images

giovedì 11 gennaio 2024

Rob Walker Racing Team: la scuderia privata che diede il primo successo in Formula 1 alla Lotus


Il 29 maggio 1960 fu un giorno storico per la Lotus: la “Ferrari d’Inghilterra”, come venne in seguito chiamata, grazie a Stirling Moss vinse il primo Gran Premio iridato di Formula 1 della sua storia. Ma il fuoriclasse inglese, il pilota più forte a non aver mai vinto il titolo mondiale, non lo fece con una delle vetture della squadra ufficiale fondata e diretta da Colin Chapman, le Lotus 18 di Innes Ireland, Alan Stacey e John Surtees, bensì con una vettura dello stesso modello ma appartenente al Rob Walker Racing Team, che l’aveva acquistata dalla casa madre.

Ebbene sì, allora c’erano scuderie private, non ufficiali e non costruttrici, che acquistavano vetture complete di telaio e motore da chi le produceva, che è poi, con le debite differenze, tenendo conto che sono passate decine di anni, quello che succede oggi in MotoGP, dove tutte le grandi marche, su tutte la Ducati, hanno team satelliti. Tutto questo in Formula 1 non accade più e una delle ultime scuderie private, che non corse mai con vetture costruite da sé, e che fu anche quella di maggior successo, fu proprio quella di proprietà di Rob Walker, discendente del fondatore della celeberrima marca di whisky Johnnie Walker.

Nato nel 1917, Rob Walker cominciò a far correre vetture da lui acquistate già prima della seconda guerra mondiale, e nel dopoguerra, con la sua scuderia ormai ufficialmente fondata, scese in pista addirittura alla 24 ore di Le Mans del 1949, con una Delahaye guidata da Tony Rolt e Guy Jason-Henry. Il 18 luglio 1953 fece il suo esordio nel mondiale di Formula 1, dopo aver partecipato a numerose gare fuori campionato, e lo fece nel Gran Premio di Gran Bretagna a Silverstone con Rolt al volante di una Connaught A di colore blu, che diventerà caratteristico della scuderia, e di Formula 2: quell’anno, e anche l’anno precedente, la massima categoria automobilistica prevedeva l’utilizzo di vetture di quella cadetta. Rolt si ritirò a meno di 20 giri dalla fine quando era sesto per problemi alla trasmissione.

Negli anni successivi la scuderia fece sporadiche apparizioni nei Gran Premi iridati di casa e molte invece nelle gare fuori campionato, ma colse anche due successi in gare della Formula 2 britannica nel 1956 e 1957 con Tony Brooks, che pilotava una Cooper T41 a motore Climax posteriore. E fu proprio con l’evoluzione di questa vettura, la T43, pensata apposta per la Formula 1 dalla casa madre, che Rob Walker cominciò a fare le cose in grande. Per il 1958 ingaggiò due piloti come il francese Maurice Trintignant e Moss, ma quest’ultimo solo quando non doveva correre con il suo team ufficiale, la Vanwall, con cui quell’anno giunse per la quarta volta consecutiva secondo nel mondiale.

Il 1958 Moss lo iniziò però con la Cooper di Rob Walker al Gran Premio d’Argentina, il 19 gennaio, e vinse clamorosamente la gara pur con un mezzo nettamente meno potente ma molto più leggero, quindi più maneggevole e meno “cattivo” con le gomme, delle altre nove vetture in gara (sì, in griglia ci furono solo dieci vetture, record storico minimo per la Formula 1), che erano tutte italiane: due Ferrari e ben sette Maserati. Il trionfo si ripeté il successivo 18 maggio a Monaco, stavolta con Trintignant, e con la presenza dei team inglesi BRM e Vanwall: per quest'ultimo era tornato a correre Moss.

Il resto dell’annata non andò ugualmente bene, ma nel 1959 Trintignant venne affiancato a tempo quasi pieno da Moss, che pur perseguitato dalla sfortuna come suo solito, si classificò terzo nel mondiale e vinse due Gran Premi, in Portogallo e a Monza, con la Cooper T51, lo stesso modello della squadra ufficiale e pilotata da Jack Brabham, che vinse il titolo mondiale (e si ripeté l’anno successivo), Bruce McLaren e Masten Gregory).

Nel 1960 Walker, dopo il Gran Premio d’Argentina in cui gareggia per l’ultima volta con la Cooper, per la gara successiva, quella di Monaco, di cui parlavamo all’inizio, sceglie una Lotus 18 a motore Climax posteriore da affidare al solo Moss, visto che Trintignant è rimasto fedele alla Cooper ma è passato alla categoria Centro-Sud. Ed è qui che il pilota inglese e Walker fanno la storia portando per la prima volta alla vittoria il marchio di Chapman con una vettura privata, ripetendo quello che avevano già fatto due anni prima con la Cooper!

Moss vincerà altri tre Gran Premi con la scuderia Walker, finendo altre due volte consecutive terzo nel mondiale: nel 1960 negli Stati Uniti, dopo essersi ripreso da un terribile incidente nelle prove del Gran Premio del Belgio sul circuito di Spa-Francorchamps versione di 14 km, e nel 1961 ancora a Montecarlo e in Germania, sul Nordschleife, con l’evoluzione della vettura dell’anno prima, la 18/21, con cilindrata scesa da 2500 a 1500 cc, come prevedevano i nuovi regolamenti. Purtroppo un incidente ancora più terribile di quello di Spa, il lunedì di Pasqua del 1962 a Goodwood al volante sempre di una Lotus ma della British Racing Partnership, porrà fine alla carriera del fuoriclasse inglese.

Walker rimase così senza il suo grande pilota: nel 1962 tornò Trintignant, con una Lotus 24, nel 1963 ci fu lo svedese Jo Bonnier con una Cooper T66, con cui lo scandinavo correrà anche la prima gara del 1964 a Montecarlo. Poi Walker scelse due modelli della Brabham, la BT11 motorizzata BRM e la BT7 motorizzata Climax affidate a Bonnier e, più sporadicamente, in qualità di wild-card locali, al’austriaco Jochen Rindt e allo statunitense Hap Sharp, mentre in Germania, ancora con la Cooper, aveva corso il pilota locale Edgar Barth. Ma è nel Gran Premio degli Stati Uniti che per Walker comincia il lungo sodalizio con Jo Siffert.

Al suo debutto con la scuderia Siffert è terzo a Watkins Glen e Walker lo affianca subito a Bonnier per la stagione 1965. Le vetture sono le stesse Brabham dell’anno prima e i risultati sono modesti, per cui nel 1966 lo svedese se ne va e Walker, dopo la gara di Montecarlo ancora con la Brabham, affida a Siffert una Cooper T81 con motore Maserati, ma i risultati non cambiano. Stessa solfa nel 1967, pertanto nel 1968, dopo il Gran Premio di Capodanno in Sudafrica, si torna alla Lotus, e che Lotus: la 49, che l'anno precedente era stata la prima F1 in assoluto con il leggendario motore Ford Cosworth DFV 8 cilindri, e poi la sua evoluzione 49B, con la quale Siffert vince il Gran Premio di Gran Bretagna a Brands Hatch, suo primo successo in Formula 1 e nono e ultimo trionfo iridato per la scuderia di Rob Walker.

A tutt’oggi, se non si vuole considerare tale quello di Ken Tyrrell prima in partnership inizialmente con la Matra, con cui vinse addirittura un titolo mondiale grazie a Jackie Stewart, e poi con la March, quindi con vetture non costruite da sé prima di mettere in pista la propria, quello di Walker è l’unico team privato vincitore di gare della massima categoria automobilistica senza essere mai stato un costruttore né un motorista. La scuderia andrà avanti ancora per due anni sempre con la Lotus, nel 1969 ancora con Siffert che arriverà terzo a Monaco e secondo in Olanda, e nel 1970, dopo che lo svizzero è passato alla neonata March, con Graham Hill. L’inglese era stato scaricato dalla casa madre di Chapman, che non credeva più in lui dopo un tremendo incidente a Watkins Glen, nel Gran Premio degli Stati Uniti, verso la fine del 1969.

Walker gli darà fiducia ma il “baffo volante” due volte campione del mondo non far meglio di un quarto posto a inizio stagione in Spagna, dimostrando comunque di poter essere ancora competitivo. Rob però a fine stagione chiuse i battenti dopo 119 Gran Premi disputati nel mondiale ma portò il suo sponsor personale, la “Brooke Bond Oxo”, sulla Surtees per le stagioni dal 1971 al 1973, e infine, nel 1975, prima di lasciare definitivamente il motorsport, sosterrà il team Custom Made di Harry Stiller, che metterà in pista una Hesketh 308 guidata dal debuttante Alan Jones uguale a quella del team ufficiale dell’eccentrico miliardario inglese Lord Alexander Hesketh e pilotata con ottimi risultati da James Hunt. Jones poi se ne andrà alla Embassy Hill mettendo fine all’avventura in Formula 1 del team di Stiller e anche di Walker, che morirà nel 2002 al termine di 85 anni di vita romanzesca.

domenica 26 novembre 2023

Una domenica di sport indimenticabile


Cominciamo dalla fine. Avevo otto anni e mezzo appena "compiuti" quando, il 18 dicembre 1976, l’Italia vinceva la sua prima Coppa Davis. Che bell’effetto che fa dire adesso “la sua prima Coppa Davis” quando fino a ieri si diceva “la sua unica Coppa Davis”. Sì perché di Coppa Davis, l’insalatiera d’argento più famosa del mondo, ne è arrivata una seconda oggi a Malaga. Con una formula pessima fin che si vuole, ma è arrivata.


Ed è arrivata grazie al capitano non giocatore Filippo Volandri (malgrado alcune sue scelte discutibili), a Lorenzo Sonego, a Lorenzo Musetti (anche se in tono minore), al veterano doppista Simone Bolelli, che in Spagna è rimasto in panchina lasciando spazio a Sonego, così come Matteo Berrettini che ha fatto da spettatore-tifoso, a Matteo Arnaldi, ma soprattutto a Jannik Sinner che finalmente vince qualcosa di davvero importante e lo fa riportando la Coppa Davis in Italia dopo 47 anni da trascinatore, principalmente con la vittoria capolavoro su Novak Djokovic nella semifinale contro la Serbia di ieri cancellando tre match point, e poi distruggendo oggi l’australiano Alex De Minaur, vittoria che ha significato il trionfo azzurro e che ha fatto seguito a quella di Arnaldi nel primo singolare della finale contro l’altro aussie Alexei Popyrin. Ed è bello che ad alzare la Coppa Davis con questi ragazzi ci sia stato il 90enne Nicola Pietrangeli, il capitano di quella squadra di 47 anni fa, formidabile ma divisa nettamente in due fazioni contrapposte, con lui che stava nel mezzo, a differenza di quella attuale, che è unita da una straordinaria amicizia collettiva.


Questa domenica, il 26 novembre 2023, che rimarrà per sempre nel cuore degli appassionati soprattutto di tennis ma non solo, era cominciata con la vittoria per un soffio di Lisa Vittozzi, che nella 15 km di Östersund non poteva cominciare meglio la Coppa del Mondo di biathlon femminile, e per chi non conosce questo sport, guardatelo perché è uno dei più pazzeschi e divertenti che esistano. È proseguita poi col diciannovesimo successo in 22 gare stagionali di F1 dell’olandese Max Verstappen, che ha chiuso l’anno come l’aveva iniziato, cioè dominando.


Uno dei due momenti più alti di questa giornata è stato poi il secondo titolo mondiale nella MotoGP per Francesco, detto “Pecco”, Bagnaia, con la sua Ducati, che a Valencia ha vinto gara e iride. Il suo avversario più pericoloso, Jorge Martin, che aveva i nervi a fior di pelle fin dal precedente Gran Premio, ha tentato di fare strike con tutti, prima con Pecco senza successo, poi, dopo aver perso una marea di posizioni, ci è riuscito con Marc Marquez, facendogli fare un volo terrificante.


Ma i Mondiali si vincono anche così, restando calmi e tranquilli nei momenti decisivi, e in questo Jannik Sinner, per tornare alla Coppa Davis, è il simbolo di questa calma e tranquillità. Continua a non piacermi particolarmente come tennista ma quello che conta è che adesso tutti vogliono giocare a tennis grazie a lui e tutti parlano di lui. Dopo questo trionfo, da me auspicato la settimana scorsa dopo l’amarissima sconfitta contro Djokovic alle ATP Finals di Torino, si merita davvero la candidatura a Messia dello sport italiano, ma in particolare del tennis.


Ah dimenticavo: due cose sono passate e passeranno sotto silenzio dai media. Ieri le azzurre del curling hanno conquistato l’argento europeo cedendo solo all’ultimo “stone” contro la favoritissima Svizzera. Oggi la statunitense Mikaela Shiffrin ha trionfato nello slalom di Killington raggiungendo l’incredibile numero di 90 vittorie in Coppa del Mondo, e in questa gara, poco prima che Sinner & Friends alzassero l’insalatiera d’argento, Marta Rossetti ha conquistato un quinto posto che è il miglior risultato per una slalomista azzurra da oltre sei anni e mezzo a questa parte e che si spera risollevi il settore più disastrato dello sci alpino italiano, quello dello slalom femminile.


Un’ultima cosa, davvero un’ultima cosa. Forse. L’Italia del tennis femminile ha vinto per quattro volte (2006, 2009, 2010 e 2013) quella che allora si chiamava Fed Cup e oggi si chiama Billie Jean King Cup e che è il corrispettivo femminile della Coppa Davis, contro le due (che bello dire due e non più una!) degli uomini, e quest’anno le ragazze azzurre sono arrivate di nuovo in finale dopo due lustri, perdendo dal Canada.


Ma sia quest’anno sia gli anni in cui questo trofeo l’hanno vinto, le tenniste italiane sono state quasi completamente ignorate dai grandi media e quindi dal grande pubblico. Eppure sono questi trionfi, insieme a quelli di Francesca Schiavone al Roland Garros del 2010 e di Flavia Pennetta in finale su Roberta Vinci agli US Open del 2015, dei quali per fortuna ci si è occupati un po’ di più, che hanno tenuto in piedi il tennis italiano e che hanno permesso l’arrivo e la crescita della squadra che oggi, finalmente, ha portato a casa la seconda, storica, Coppa Davis.


Chiudo qua questo sproloquio ma comincio ad aggiornare i miei database sportivi. La mia giornata lavorativa è stata lunghissima e, con così tanti sport da seguire anche se non tutti per lavoro, estenuante, ma alla fine decisamente appagante e piena di gioia. Non sempre, anzi, per me quasi mai, ma ogni tanto vivere è bello.


Foto: Getty Images

martedì 21 novembre 2023

Il nuovo Messia dello sport italiano?


Mi sono accorto che questo blog era ormai agonizzante da più di un anno, durante il quale ho ripetutamente pensato di chiuderlo, ma non c'era occasione più ghiotta per dargli un pochino di ossigeno e tenerlo ancora un po' in vita.

In questi giorni di "Sinnermania" si sono sprecati i "mai visto di qua, mai visto di là, mai visto di su, mai visto di giù" a proposito di Jannik. L'unica cosa che io non ho mai visto è uno che da quindici anni gioca con crescente intensità, precisione e voglia di vincere su tutte le superfici per tutti i dodici mesi dell'anno e che ha avuto pochissimi seri infortuni come Djokovic, che peraltro per questa continua innaturale crescita (gli anni sono 36 e alla sua età Murray è completamente distrutto fisicamente, così come Nadal, che ha un anno di più e che comunque l'anno prossimo proverà a tornare) mi ha ampiamente fracassato gli innominabili.

Molte delle cose che ho letto su Sinner, come per esempio "a 22 anni avere una continuità e una saldezza di nervi del genere è cosa rara", dimostrano che o non si conosce la storia del tennis mondiale oppure la si dimentica, come puntualmente accade per la storia politica e bellica delle nazioni. Ho anche letto scocchezze inaudite secondo le quali quando vince per la gente è italiano e quando perde è tedesco, invece Paola Egonu dato che è nera non è mai italiana. Oppure la giovane sciatrice Lara Colturi, dato che gareggia per l'Albania, non è più italiana.

Io invece, che non ho mai guardato né nazionalità né colore della pelle di nessuno ma solo i fatti, dico che la vittoria di Sinner su Rune è stata sì sportività e onestà da parte di Jannik ma anche un suicidio sportivo, visto che ha rimesso in gioco l'unico suo avversario che in un Pala Alpitour di Torino tutto per lui poteva batterlo, e così purtroppo è stato, tra l'altro era anche abbastanza prevedibile visto che molto spesso, circa il 60% delle volte, la semifinale o la finale delle ATP Finals ha avuto un esito diverso rispetto allo stesso match disputato nei gironi, come si può vedere dall'elenco che metto più sotto. Per la precisione, su 22 volte che uno ha vinto un match nel girone, come nel caso di Jannik contro Nole, ha poi perso per 13 volte la semifinale o la finale contro lo stesso avversario.

Insomma, onore a Sinner per tutto quello che ha fatto finora nella sua carriera, riscrivendo record su record del tennis italiano, per la sua dedizione al gioco, per la sua volontà di migliorarsi (e quest'anno è migliorato esponenzialmente) e soprattutto per aver suscitato un interesse per il tennis che in Italia, come ha genialmente scritto qualcuno, non si vedeva dai tempi della partita tra Fantozzi e Filini. Però adesso qualcosa di davvero importante, malgrado i dieci tornei portati a casa (di cui però solo un Masters 1000) e la posizione di numero 4 del mondo con cui chiude l'anno, deve iniziare a vincerla, a cominciare magari dalla Coppa Davis di questa settimana a Malaga, perché alla casella di vittorie importanti siamo ancora a quota zero.

Tocca a Jannik, coadiuvato dal suo staff capeggiato da due bravissimi tecnici come Darren Cahill e Simone Vagnozzi, dimostrare di essere all'altezza del ruolo di nuovo Messia dello sport italiano con il quale è stato incoronato dai grandi media e dagli opinionisti più o meno improvvisati. E purtroppo, anche a costo di passare per antisportivo, qualche volta ci vuole anche un po' di pragmatismo. Cosa che nel tennis soltamente non è necessaria, dato che i match di torneo sono sempre a eliminazione diretta, ma che purtroppo bisogna avere alle ATP Finals, a causa del loro assurdo regolamento che prevede i gironi all'italiana, un formato che va totalmente contro lo spirito di uno sport che è da dentro o fuori come il tennis.

Ecco l'elenco degli incontri doppi che si sono avuti nella storia delle ATP Finals, cioè dal 1970 in poi.

1976
Girone: Fibak b. Orantes 7-5 7-6
Finale: Orantes b. Fibak 5-7 6-2 0-6 7-6 6-1

1978
Girone: McEnroe b. Ashe 6-3 6-1
Finale: McEnroe b. Ashe 6-7 6-3 7-5

1981
Girone: Lendl b. Gerulaitis 4-6 7-5 6-2
Finale: Lendl b. Gerulaitis 6-7 2-6 7-6 6-2 6-4

1987
Girone: Lendl b. Gilbert 6-2 6-2
Semifinali: Lendl b. Gilbert 6-2 6-4
Girone: Edberg b. Wilander 6-2 7-6
Semifinali: Wilander b. Edberg 6-2 4-6 6-3

1989
Girone: Becker b. Edberg 6-1 6-4
Finale: Edberg b. Becker 4-6 7-6 6-3 6-1

1990
Girone: Edberg b. Agassi 7-6 4-6 7-6
Finale: Agassi b. Edberg 5-7 7-6 7-5 6-2

1994
Girone: Becker b. Sampras 7-5 7-5
Finale: Sampras b. Becker 4-6 6-3 7-5 6-4

1996
Girone: Becker b. Sampras 7-6 7-6
Finale: Sampras b. Becker 3-6 7-6 7-6 6-7 6-4

1999
Girone: Agassi b. Sampras 6-2 6-2
Finale: Sampras b. Agassi 6-1 7-5 6-4

2000
Girone: Agassi b. Kuerten 4-6 6-4 6-3
Finale: Kuerten b. Agassi 6-4 6-4 6-4

2001
Girone: Hewitt b. Grosjean 3-6 6-2 6-3
Finale: Hewitt b. Grosjean 6-3 6-3 6-4

2003
Girone: Federer b. Agassi 6-7 6-3 7-6
Finale: Federer b. Agassi 6-3 6-0 6-4

2004
Girone: Federer b. Hewitt 6-3 6-4
Finale: Federer b. Hewitt 6-3 6-2

2005
Girone: Federer b. Nalbandian 6-3 2-6 6-4
Finale: Nalbandian b. Federer 6-7 6-7 6-2 6-1 7-6

2008
Girone: Djokovic b. Davydenko 7-6 0-6 7-5
Finale: Djokovic b. Davydenko 6-1 7-5

2011
Girone: Federer b. Tsonga 6-2 2-6 6-4
Finale: Federer b. Tsonga 6-3 6-7 6-3

2015
Girone: Federer b. Djokovic 7-5 6-2
Finale: Djokovic b. Federer 6-3 6-4

2017
Girone: Dimitrov b. Goffin 6-0 6-2
Finale: Dimitrov b. Goffin 7-5 4-6 6-3

2018
Girone: Djokovic b. Zverev 6-4 6-1
Finale: Zverev b. Djokovic 6-4 6-3

2021
Girone: Medvedev b. Zverev 6-3 6-7 7-6
Finale: Zverev b. Medvedev 6-4 6-4

2023
Girone: Sinner b. Djokovic 7-5 6-7 7-6
Finale: Djokovic b. Sinner 6-3 6-3

domenica 11 settembre 2022

Continuano a uccidere uno sport già morto. Basta con questa Formula 1!


Il 3 maggio 1994 la Gazzetta dello Sport, come potete vedere nella foto che apre questo pezzo, faceva un titolo in prima pagina involontariamente profetico: "Con Senna muore questa Formula 1". E il sottotitolo era questo: "Sicurezza subito o non si corre". Bene, da quel giorno si è abusato delle misure di sicurezza (l'unica davvero provvidenziale, oltre ai telai più sicuri delle vetture, è stato l'halo, la protezione per la testa dei piloti) e si è gradualmente smesso di correre. O almeno, di correre come si era sempre corso fino al Gran Premio di San Marino 1994 a Imola, fino a quel 30 aprile 1994, quando morì il più dimenticato dei piloti caduti del Circus, Roland Ratzenberger, e fino soprattutto all'1 maggio 1994, quando morì Ayrton Senna, il campione dei campioni.


Subito dopo, invece di rallentare le vetture, si cominciò a rallentare i circuiti, o almeno quelli che non erano già stati rallentati come Monza o Silverstone. Si cominciò proprio da Imola, dove vennero inserite due chicane al Tamburello e alla Villeneuve, le due curve dove erano morti Senna e Ratzenberger, quindi si continuò con Spa-Francorchamps, il cui circuito originario di 14 km era già stato bannato, così come altri gioielli come il Nordschleife, Brands Hatch e altri, inserendo un'orrenda chicane al passaggio dell'Eau Rouge-Raidillon che fortunatamente durò solo un anno, inoltre la prima chicane di Monza, nel 2000, venne ulteriormente rallentata, così come la leggendaria seconda curva di Lesmo, già modificata nel 1995.


La demolizione della storia della Formula 1 continuò con la vera e propria distruzione di circuiti come Silverstone e Hockenheim, che vennero completamente stravolti in nome della sicurezza. In parole povere, queste piste vennero equiparate a circuiti orripilanti, disegnati tutti dalla stessa mano, come per esempio quello di Sochi, o quelli di Sepang e Istanbul (i meno peggio), Abu Dhabi, Jeddah, Shanghai, Singapore, Baku: tutti posti in cui la Formula 1 andò solo per interessi commerciali.


Poi il programma delle qualifiche, che ai tempi di Senna, quando venivano chiamate ancora qualificazioni o prove ufficiali, prevedevano un'ora al venerdì e un'ora al sabato, venne limitato al sabato e quindi, con ulteriori stravolgimenti, si è arrivati al sistema a eliminazione di oggi, fatto solo per aumentare lo spettacolo televisivo. Quindi sono stati aboliti i test privati tra un Gran Premio e l'altro per diminuire i costi, essendo notoriamente la Formula 1 un ambiente in cui arrivano solo dei pezzenti: conoscete qualche altro sport dove è proibito allenarsi tra una gara e l'altra? Io no.


E che dire dell’obbligo, gradualmente introdotto, di utilizzare almeno due mescole diverse di gomme per ogni Gran Premio, per dare più importanza alle fermate ai box e alle strategie invece che alla battaglia in pista, purché sana? Come non ricordare poi i track limits, i limiti del tracciato superando i quali, anche se non ne trae vantaggio, a un pilota viene tolto il tempo di quel giro, che magari gli ha fruttato la pole, e la relativa abolizione della ghiaia sui nuovi circuiti, sempre naturalmente in nome della sicurezza, dove il pilota andava a impantanarsi se arrivava troppo largo in una curva? Come non ricordare anche la reintroduzione, dopo più di 60 anni, del punto aggiuntivo per il giro più veloce in gara, con i piloti con le vetture più performanti che si fermano all’inizio del penultimo giro a cambiare una volta supplementare le gomme per tentarlo nell'ultimo strappandolo così ai diretti avversari?


Infine, le due cose più meravigliosamente demenziali, la cui demenza si è evidenziata alla massima potenza nel Gran Premio d'Italia concluso poche ore fa. Invece di penalizzare i piloti sulla griglia di partenza per qualche manovra scorretta che effettuavano in pista, si è deciso di farlo fissando un tetto massimo di motori da poter utilizzare anche nel corso della stagione, sempre per l'illusoria riduzione dei costi ma anche per avere più spettacolo in pista con più sorpassi da parte dei più forti costretti alla rimonta se penalizzati, ma che vengono aiutati da più di dieci anni dal DRS, l'ala mobile che può essere spalancata per scavalcare chi ci precede purché il distacco sia inferiore al secondo: un meccanismo che consente anche a chi non sarebbe mai stato in grado di effettuare sorpassi in condizioni normali di sentirsi un fuoriclasse.


Ma torniamo al tetto di propulsori utilizzati in un anno, attualmente fissato a tre, (un numero miserrimo, come se i fornitori di power unit, come si chiamano adesso, non ne producano almeno il decuplo in un anno), superato il quale il povero pilota viene penalizzato in griglia partendo dal fondo, o di 10 posizioni, o di 5, a seconda della rilevanza della sostituzione delle parti del motore, e questo riguarda anche gli elementi del cambio. A Monza ieri sono stati ben nove i piloti penalizzati e fino a tarda sera non si sapeva ancora quale sarebbe stata la griglia di partenza del Gran Premio d'Italia a causa delle diverse interpretazioni, anche da parte degli stessi team, di un regolamento scritto con i piedi, per non dire con qualcos'altro. E fortuna che oggi, prima del Gran Premio, qualcun altro non ha deciso di sostituire alcune parti meccaniche della sua vettura, altrimenti la griglia sarebbe stata nuovamente rivoluzionata. La domanda quindi è: ma cosa si fanno a fare le qualifiche se il risultato viene completamente stravolto da queste norme?


Dulcis in fundo, la safety-car, ma prima un accenno alla bandiera rossa. Premesso che quando, fino a qualche anno fa, la gara veniva interrotta con questo vessillo, i tempi dei concorrenti prima dell'interruzione venivano sommati a quelli dopo l'interruzione, ma adesso non più: si parte o dalla griglia, o dai box dietro la safety-car, nell'ordine in cui i piloti erano prima dell'interruzione, ed è come se la gara ricominciasse da zero, come a Baku l'anno scorso, quando la ripartenza fu dietro la safety-car per un giro e poi solamente i due giri successivi contarono di fatto per il risultato finale, col cronometro che però ha continuato a correre anche per il tempo in cui la gara era interrotta, abbassandone così notevolmente la media oraria.


Ma dicevamo, appunto, della safety-car, introdotta in modo disastroso per la prima volta in Canada nel 1973, generando una confusione tale che tuttora non si sa con assoluta certezza se quella gara fu realmente vinta da colui che venne proclamato vincitore. Della vettura di sicurezza, per fortuna, non si parlò più per vent'anni, e l'1 maggio era stata reintrodotta da un anno quando ricomparve proprio in quel Gran Premio di San Marino in cui morì Senna poco prima dello schianto fatale del brasiliano, perché gli addetti alla pista ripulissero i detriti lasciati dalle vetture di JJ Lehto e Pedro Lamy, coinvolti in un incidente in partenza. Da allora ha infestato sempre di più le gare di Formula 1, falsandone decine e permettendo sempre meno ai piloti di gareggiare sul serio. Adesso per esempio entra in azione ogni volta che una vettura viene parcheggiata a bordo pista, e addirittura con la pioggia non si può quasi più correre, come dimostra la buffonata di Spa-Francorchamps, con tre giri tre tutti dietro la safety-car e con la classifica finale della "gara" stilata tenendo conto solamente del primo giro effettuato.


Quello, tra i tanti, sembrava il punto più basso raggiunto dalla Formula 1 nella sua storia recente, proprio nella stagione, quella del 2021, che molti smemorati considerano la più bella di sempre e che invece, oltre ai patetici ripetuti autoscontri tra Verstappen e Hamilton, ha visto obbrobri come quelli dei due giri finali a Baku citati prima o la ripartenza del Gran Premio d'Ungheria con solamente Hamilton posizionato sulla griglia mentre tutti gli altri piloti si erano fermati a cambiare le gomme dopo l'interruzione per un incidente multiplo alla prima curva, la stessa gara in cui Vettel, secondo, fu incredibilmente squalificato perché arrivato a fine gara con una quantità di benzina al di sotto del limite consentito, come se ci dovesse essere un limite per chi rischia di finire senza carburante.


Ma oggi, a Monza, è stata scritta un'altra pagina grottesca e ridicola. Daniel Ricciardo ha parcheggiato la sua auto in panne lungo il tracciato ed è entrata in scena la safety-car, ma non andando in pista davanti al leader Verstappen, bensì davanti a Russell, terzo in quel momento, con il risultato che si è perso tempo per far sì che fosse Verstappen a essere subito dietro a questa disgraziata vettura, e una volta che il campione del mondo è arrivato nella posizione corretta, i due doppiati che c'erano tra lui e Leclerc, secondo, non hanno potuto sdoppiarsi come avrebbero dovuto fare perché la gara stava ormai finendo e non c'era più tempo per farlo. Insomma, si è tornati indietro di 49 anni, a quel Gran Premio del Canada del 1973, quando il pilota della vettura di sicurezza sbagliò i tempi di entrata in pista perdendosi il leader della corsa.


Quindi la domanda ulteriore è: era proprio necessaria la safety-car? Secondo me, ma io sono ormai un vecchio nostalgico di quando le corse erano molto più semplici e lineari, senza cambi di gomme o rifornimenti programmati e tantomeno safety-car, e con bandiere rosse solo in casi limite, non avrei né mandato la safety-car né esposto la bandiera rossa: del resto, basta farsi un giro su Youtube per guardare decine di video di gare che continuavano come se nulla fosse con vetture ferme a bordo pista perfino a Montecarlo, o purtroppo con auto che bruciavano capovolte con il pilota intrappolato al di sotto della vettura, come il povero Williamson a Zandvoort 1973 (ma in quest'ultimo caso e anche in altri si trattava di cinismo estremo e di assenza totale di pietà umana, perché lo spettacolo doveva continuare), oppure di gare vinte da Stewart, Senna e Michael Schumacher sotto diluvi universali.


Ma se proprio si voleva mettere in sicurezza i piloti, per il terrore che la morte torni a colpire la Formula 1 e che aleggia sempre sul Circus come se questo non fosse uno sport pericoloso, non si poteva esporre la bandiera rossa e far riprendere la corsa per gli ultimi cinque o sei giri, azzerando tutti i distacchi in un modo meno indecente? Sicuramente ci sarebbe stata una conclusione migliore e sopratutto più equa di quella che c'è stata, ossia dietro la safety-car, oltretutto tenendo con il fiato sospeso il pubblico record accorso all’Autodromo, che così si sarebbe divertito fino alla fine e che invece ha pagato il biglietto per vedere i giri finali completamente neutralizzati. Ma la FIA, in un comunicato, ha detto che non c'erano le condizioni per esporre la bandiera rossa, pertanto si è ricorsi alla "pace car", come la chiamano in Nordamerica.


Qual è la morale di questo mio interminabile sproloquio? È che la Formula 1 ha riguadagnato anche in Italia tantissimi spettatori, specialmente tra i giovani, non certo grazie alle gare o alla telecronache, bensì alla serie tv Netflix “Drive to Survive”, ampiamente esagerata e romanzata e senza un filo cronologico serio, ma è uno sport che è solo l'ectoplasma del meraviglioso, e purtroppo anche tragico, sport che era fino a tutti gli anni ottanta e ai primi novanta del secolo scorso. È bene che i giovani nati, diciamo, negli ultimi trent'anni, studino un po' della storia dello sport che stanno guardando, perché sappiano quello che si sono persi, e che razza di eroi erano i suoi piloti, che dovevano guidare delle bare ambulanti difficilissime da tenere in strada.


Una volta letta un po’ di storia della Formula 1, potranno fare il confronto con quella di oggi, sempre che quella di oggi possa essere ancora chiamata sport, visto che dopo le morti di Ratzenberger e Senna, come ho cercato di raccontare, il Circus ha avuto, per fortuna, solo un pilota caduto in un weekend di gara, Jules Bianchi, ma è stato (il Circus) gradualmente ucciso con coltellate plurime che continuano a essere inferte anche adesso che ormai da tempo è un cadavere risorto come uno zombie, o un baraccone totalmente allo sbando, o come un videogioco, o come una serie tv, chiamatelo come vi pare. In altre parole, è una cosa con la quale lo sport ha ben poco a che fare. E gli addetti ai lavori che seguono la Formula 1, passato qualche giorno dall’ennesima vergogna, la seppelliscono, perché gli spettatori e gli appassionati vanno trattenuti e vanno tenuti nell’illusione che questa sia la più bella Formula 1 mai vista. E perfino io continuo a guardarla quasi per inerzia, per lavoro o forse solo per parlarne male in sproloqui come questo, ricordandomi bene di quello che era, ma prima o poi mi stuferò definitivamente.

sabato 3 settembre 2022

I primi 100 anni del circuito di Monza

Oggi si celebra una data storica per l’automobilismo italiano e mondiale: esattamente 100 anni fa, il 3 settembre 1922, veniva infatti disputata la prima gara all’Autodromo Nazionale di Monza, che divenne in quel momento, il quarto circuito permanente della storia degli sport motoristici, dopo quello di Milwaukee, quello britannico di Brooklands e il leggendario ovale di Indianapolis, l’unico rimasto insieme a quello brianzolo.

La costruzione di quello che veniva chiamato nelle cronache dell’epoca "Circuito di Milano", un po’ comicamente a pensarci oggi, fu decisa nel gennaio di quello stesso 1922 dall’Automobile Club proprio di Milano, per festeggiare il 25° anno dell’associazione, e come sede fu scelto il Parco di Monza. Questa decisione scatenò subito violente polemiche, che da parte degli ambientalisti durano ancora oggi ed è uno dei motivi, oltre che quello delle altissime velocità che vi si raggiungono specialmente in Formula 1 malgrado l’inserimento nel corso degli anni di svariate chicane, per i quali un impianto sportivo così importante viene messo in discussione un anno sì e l’altro pure.

Il progetto iniziale prevedeva una pista di 14 km ma alla fine, dopo che il 26 febbraio Felice Nazzaro, uno dei migliori piloti dell’epoca, e Vincenzo Lancia, il fondatore dell’omonima casa automobilistica, avevano tracciato il primo solco del futuro circuito, si dovette ripiegare, per il minore impatto ambientale, su un circuito di 5,5 km più un anello di alta velocità di 4,5 km per un totale di 10 km esatti. La Società Incremento Autodromo e Sport (SIAS) presieduta dal senatore Silvio Crespi si accordò con l’Opera Nazionale Combattenti, l’ente a cui era affiliato il Parco.

I lavori, eseguiti dall’Impresa Piero Puricelli, iniziarono solo il 15 maggio, dodici giorni dopo l’approvazione del progetto definitivo, a meno di quattro mesi dalla data prevista per la seconda edizione del Gran Premio d’Italia, che sarebbe stata ospitata dal nuovo impianto dopo che il 4 settembre 1921 si era disputata la prima edizione sul circuito stradale di Montichiari, in provincia di Brescia, di 17,3 km da ripetere 30 volte e che aveva visto la vittoria del francese Jules Goux su Ballot alla media di 144,736 km/h. I lavori, comprendenti le strade di comunicazione interne, le tribune e i box, furono completati in soli 110 giorni, un record per un impianto di quella portata. Nel frattempo, il 28 luglio, Nazzaro e Pietro Bordino, altro grande pilota, la percorsero per la prima volta al volante di due Fiat 501, mentre le auto da corsa vi fecero il loro primo ingresso di prova il 20 agosto.

E si arriva così al fatidico 3 settembre, quando, alla presenza del presidente del consiglio Luigi Facta (colui che cadrà meno di due mesi dopo a causa della cosiddetta "marcia su Roma") e sotto la pioggia per gran parte della sua durata, si disputa la gara riservata alle cosiddette Vetturette, 1500 cc di cilindrata e 450 kg di peso minimo. Alla partenza si schierano nove vetture, delle quali quattro sono Fiat, che dopo 60 giri e 600 km si classificano ai primi quattro posti. A vincere, dopo essere partito a sorte dalla prima fila (le qualifiche erano ancora di là da venire) è Bordino sul modello 501 per le corse, che completa la distanza in 4h28’38”6 alla media di 134,007 km/h. Secondo è Enrico Giaccone a oltre cinque minuti e mezzo, terzo Evasio Lampiano a quattro decimi da Giaccone, quarto Carlo Salamano a quasi sette minuti da Bordino. Quinto, a quasi un’ora dal vincitore, la prima vettura non Fiat, la Chiribiri di Maurizio Ramassotto.

Il successivo 8 settembre si corre il Gran Premio motociclistico delle Nazioni con la vittoria assoluta di Amedeo Ruggeri su Harley Davidson 1000 e con quella di Ernesto Gnesa con la Garelli 350 due tempi nella classe 500. Il 10 settembre è la volta del Gran Premio d’Italia, riservato a vetture da 2000 cc e peso minimo di 650 kg. Alla vigilia, durante il sabato delle prove libere, come si chiamerebbero oggi, c’è la prima delle tante tragedie di questo circuito, la morte di Gregor Kuhn, pilota dell’Austro-Daimler, e il ferimento del suo meccanico e compagno di abitacolo Robert Felder. La marca austriaca si ritira in segno di lutto dalla gara dell’indomani, prevista stavolta su 80 giri per 800 km totali, che dei 38 iscritti vede al via solo 8 piloti, tra i quali tre della Fiat e lo spagnolo Pierre de Vizcaya con la Bugatti, per la cui partecipazione pare siano state fatte pressioni sul costruttore, Ettore Bugatti, che non voleva gareggiare a causa della superiorità delle Fiat, per schierare il suo pilota al via, cosa che avrebbe comportato il rinvio della partenza dalle 9 alle 9,30 del mattino.

La vittoria, sotto gli occhi di una folla incredibile di centomila spettatori entusiasti, va, ancora una volta come una settimana prima e ancora una volta con la pioggia che ostacola lo svolgimento della corsa nella prima parte, a Bordino, su Fiat 804, in 5h43’13" alla media di 139,853 km/h, inferiore a quella fatta registrare da Goux un anno prima a Montichiari. Secondo a 8’22" è Nazzaro, compagno di squadra di Bordino. Solo un’altra vettura arriva al traguardo: quella dello spagnolo Pierre de Vizcaya su Bugatti, staccato di 4 giri e fermato dall'invasione di pista da parte del pubblico: nonostante non abbia completato tutti gli 80 giri in programma (non come oggi, quando se uno è doppiato viene comunque fermato dalla bandiera a scacchi), cosa che con i regolamenti di allora comporterebbe la squalifica, viene ugualmente classificato in terza posizione. La terza Fiat, quella di Giaccone, rimane ferma alla partenza con la trasmissione fuori uso.

Dopo queste prime tre gare, tutto il resto, come si dice, è storia, fatta di molte gare memorabili ma anche di tragedie. Il Gran Premio d’Italia da allora si è disputato ogni anno quasi ininterrottamente (quella che andrà in scena domenica 11 settembre sarà la sua novantaduesima edizione, l'ottantasettesima a Monza), tranne nel 1929 e nel 1930 in seguito alla tragica morte di Emilio Materassi e di 27 spettatori nel 1928, e poi dal 1939 al 1946 a causa della guerra. Inoltre, dal 1922 in poi, la gara si è sempre disputata a Monza tranne nel 1937 (Livorno), 1947 (Milano, per davvero!), 1948 (Torino, al Valentino), e infine nel 1980, quando a Imola si corse l’unica edizione del Gran Premio d’Italia non disputata a Monza a partire dalla nascita del campionato del mondo di Formula 1 nel 1950.

Il circuito è stato modificato innumerevoli volte, per esempio con la creazione della curva Parabolica al posto della vecchia doppia curva di porfido nel 1955, lo stesso anno in cui si corse per la prima volta sul rifatto anello di alta velocità, poi abbandonato, e poi con l’introduzione delle chicane, a poco dopo la metà del rettilineo dei box che inizialmente arrivava fino alla curva grande, ora curva Biassono, poi alla curva della Roggia e infine alla curva Ascari, precedentemente detta curva del Vialone. Queste chicane, pur snaturandone in nome della sicurezza le caratteristiche originali, rimaste bene o male quasi intatte fino al 1971 (anno della gara più bella della storia della Formula 1 con i primi cinque che tagliarono il traguardo nello spazio di 61 centesimi), non hanno tolto al circuito di Monza la nomea di vero e proprio “tempio della velocità”. E a dispetto di tutti coloro che già pochi anni dopo la sua nascita ne volevano la morte, a 100 anni è più vivo che mai.

lunedì 29 agosto 2022

Expected rimorchi (o colpi di fulmine reciproci)

Dopo un bel po' di tempo voglio tornare a raccontare su questo spazio la mia eccitante vita personale, che se possibile è ancora più entusiasmante di quella lavorativa. Avete presente quella statistica del calcio chiamata "expected goals", e cioè quanti gol ci si aspetta che una determinata squadra possa segnare in una determinata partita? No? Beh, non vi siete persi niente. È una statistica completamente inutile, se non forse per chi scommette. Ma c’è un'altra statistica ancora più inutile, nel senso che il risultato finale è scontato, perché è sempre lo stesso. Questa statistica riguarda me, ed è chiamata "expected rimorchi", oppure "expected colpi di fulmine reciproci".

Ormai da quasi tre anni esco di casa sempre più raramente, visto che da gennaio 2020 non faccio più trasferte sciistiche e visto che né nel 2020 né quest’anno sono riuscito a passare nemmeno un giorno al paesello durante l’estate. Pertanto, tolto qualche ritrovo estemporaneo con i pochi amici che mi sono rimasti fedeli e tolte le visite settimanali a mio papà, anch'esse diradatesi paurosamente negli ultimi due mesi a causa dei continui guai alla macchina, il massimo della libidine per me è la puntatina bisettimanale all’Esselunga. E qui entra in scena la statistica di cui sopra.

Di solito, il numero di questi potenziali rimorchi, o colpi di fulmine reciproci che dir si voglia, non supera i cinque-sei casi al giorno, se proprio va di extralusso arriviamo a dieci-dodici. Questa mattina però, complice la macchina che da più di una settimana è nelle mani del meccanico, grazie ai due passi per arrivare alla fermata dell’autobus, al percorso in autobus, a un’altra passeggiatina per vedere se la mia macchina esisteva ancora o se l’avevano rottamata dalla disperazione, a un’altra passeggiatina per raggiungere l’Esselunga, al giro di tutti i reparti dell’Esselunga per fare la spesa e poi al ritorno a casa in autobus, con annesse passeggiatine Esselunga-fermata di partenza e fermata di arrivo-casa, il numero di potenziali rimorchi o colpi di fulmine reciproci ha raggiunto la ragguardevole cifra di 24, che non avevo mai raggiunto e che probabilmente non raggiungerò mai più.

Come spiegare questa cifra? Forse perché sono tornate tutte dal mare e si sono rituffate immediatamente nella vita e nella spesa di città girando per strada e al supermercato in abiti ancora quasi marinareschi. E questa quota sarebbe potuta essere addirittura di 28 se 3 non fossero state accompagnate da marito o fidanzato, e una, forse la più bella di tutte, era col bambino piccolo nel passeggino. Quindi già in questi quattro casi il rimorchio o colpo di fulmine reciproco era irrealizzabile, ma anche negli altri 24 il numero di realizzazioni è stato sempre lo stesso: zero assoluto. Di queste 24, due soltanto mi hanno lanciato uno sguardo prolungato, probabilmente di compatimento, e una uno sguardo dello stesso tono ma pure un po’ distratto mentre si accendeva una sigaretta. Le altre, come se non esistessi.

Avete capito adesso perché questa statistica è ancora più inutile degli expected goals? Perché la percentuale di realizzazione è sempre la stessa: ZERO! E avete capito adesso perché la mia vita personale è se possibile ancora più entusiasmante di quella lavorativa (che di proposito non voglio più raccontarvi), senza contare che ormai avere la macchina è un optional e che a settembre dovrò pure montare l’impianto gpl per circolare anche solo nelle straducole della periferia dove vivo all’interno del comune di Milano? Quindi, visto che la percentuale realizzativa è nulla, meglio avere gli "expected rimorchi" o "expected colpi di fulmine reciproci" su Instagram. Tanto lì si sa già che il risultato finale, rispetto alla vita reale, non cambia. Ma almeno lì, se fai un complimento sincero, non vedendoti in faccia, in genere lo accettano.

P.S: mentre stavo finendo di scrivere questo sproloquio mi hanno telefonato avvisandomi che la macchina è pronta, quindi adesso esco, e tenete presente che quella cifra di 24 potrebbe anche aumentare.