sabato 7 maggio 2022

Il mio ricordo di Gilles 40 anni dopo


Quando Gilles Villeneuve arrivò alla Ferrari io ero invece appena arrivato, dall’alto dei miei 9 anni, a seguire la Formula 1 in tv. Devo dire che molto spesso, specialmente il primo anno, dall’alto della mia grande saggezza di novenne-decenne, l’ho considerato un folle per gli incidenti che faceva e per i rischi che si prendeva e faceva prendere agli altri. Insomma, era esattamente il contrario del mio idolo Niki Lauda, che da Maranello aveva appena divorziato e di cui Villeneuve aveva preso il suo posto.

Poi Gilles. oltre che di distruggere macchine, cominciò a dimostrare di essere capace di vincere e allora cominciai a esaltarmi per lui. Le punte massime di esaltazione arrivarono, ovviamente, col duello con Arnoux a Digione nel 1979 e con le incredibili vittorie di Montecarlo e Jarama nel 1981, quando specialmente nella seconda occasione dimostrò le sue innate capacità di guida tenendosi dietro quattro belve scatenate per moltissimi giri.

Come direbbe Marc Gené, “Mai visto questo”, e avrebbe ragione: cose come quelle di Digione e di Jarama non si sono purtroppo mai più viste nella storia della Fprmula 1. Non solo, il duello Villeneuve-Arnoux non sarebbe più possibile perché alla prima toccata di ruote e alla prima escursione fuori pista sarebbero scattate tutte le assurde sanzioni che infestano il regolamento del Circus di oggi.

Quando poi Gilles si schiantò a Imola nel 1980, in un modo molto simile a quello per il quale nel 1994 morirà Roland Ratzenberger, cominciai a pensare che fosse immortale, perché usciva da qualsiasi tipo di incidente senza un graffio. E invece, quel maledetto 8 maggio di 40 anni fa, mio papà venne a prendermi alla scuola di musica dove mi faceva inutilmente studiare e poi andammo a giocare a ping pong. Mentre palleggiavamo mi disse che Villeneuve aveva avuto un incidente ed era già praticamente morto.

Il mondo mi crollò addosso. Pensai che stesse scherzando e invece i telegiornali della sera confermarono purtroppo la notizia. Da quel momento non ho mai rimpianto abbastanza Gilles, intuendo che uno aggressivo ma corretto come lui, nel senso che non avrebbe mai speronato apposta un avversario, non ci sarebbe più stato, e la successiva storia della Formula 1, con alcuni grandi campioni che però erano anche estremamente scorretti, l’ha ampiamente dimostrato.

Ma Gilles era anche uno leale e lo dimostrò a Monza nel 1979, quando coprì le spalle al suo compagno di squadra Jody Scheckter aiutandolo a vincere davanti a migliaia di tifosi impazziti quel titolo mondiale che lui non avrebbe mai potuto vincere. Questa lealtà gli si ritorse contro a Imola nel 1982, quando Didier Pironi, che lui credeva suo amico, lo batté dopo un duello fratricida ignorando le segnalazioni (peraltro ambigue) esposte dai box della Ferrari di andare piano per non prendersi dei rischi e che il francese interpretò a suo modo.

Quello sgarbo Gilles non lo mandò giù e, piaccia o non piaccia, fu la genesi della tragedia di Zolder di 13 giorni dopo. Salut Gilles. Se ho amato e amo ancora la Formula 1 malgrado non sia più nemmeno la lontana parente di quella dei tuoi tempi in quanto a pathos, oltre che a Niki Lauda lo devo anche a te. A proposito, non prendere a ruotate Niki, mi raccomando: potrebbe aversene a male...

martedì 8 febbraio 2022

Giochi olimpici tutto l'anno, per favore!

“Buona linea!” E’ il grido che mi è risuonato nelle orecchie nell’ultima settimana. E’ quello di Stefania Constantini. Sì, proprio così, Constantini, non Costantini, come credevo invece si scrivesse il suo cognome la prima volta che l’ho incrociato nove mesi fa. Lei, 22enne di Cortina d’Ampezzo, è stata protagonista insieme ad Amos Mosaner, 26enne trentino di Cembra, di una delle imprese più incredibili della storia dello sport italiano: la vittoria nel torneo olimpico del doppio misto del curling a Pechino. Un oro frutto di un movimento già di per sé microscopico ma che lo è soprattutto se lo si confronta con quelli di alcune grandi potenze della disciplina che questi due meravigliosi ragazzi hanno battuto. 16 anni fa il curling sembrava essere esploso durante i Giochi di Torino 2006, così come il pattinaggio di velocità su pista lunga, illuminato dalle imprese di Enrico Fabris. Ma poi questi sport, e non solo loro, sono ripiombati nel dimenticatoio, come tantissimi sport olimpici, anche estivi ma soprattutto invernali: i Giochi della neve e del ghiaccio per la stragrande maggioranza degli italiani rimangono fortemente di nicchia, e lo sfalsare la data rispetto ai Giochi estivi a partire da Lillehammer 1994 ha ulteriormentte peggiorato le cose. E la colpa è soprattutto dei media, di cui faccio parte, ma anche delle federazioni: sono poche quelle capaci di promuovere i loro sport nel modo giusto, e quelle degli sport invernali brillano per la loro incapacità di farlo, anzi, fanno emergere vicende squallide come quella nello sci alpino maschile degli ultimi giorni, da qualunque parte stia la ragione, oppure gli eterni attriti tra un’atleta leggendaria che ovunque sarebbe venerata come Arianna Fontana e la sua federazione. Il trionfo di Stefania e Amos è una di quelle storie che possono uscire solo dai Giochi olimpici, che, pur con tutti i loro grandi difetti, rimangono l’evento più importante e visionario che l’umanità abbia mai inventato. E le imprese dei nostri atleti, ma anche le avventure e le ambizioni di tutti i nostri atleti che vi partecipano sognando una medaglia olimpica, sono l’unica cosa che mi rendono ancora fiero di essere italiano. Per favore, Giochi olimpici tutto l’anno allora. E meno calcio. E soprattutto zero politica. Soprattutto quell’infame politica che ha rovinato il nostro meraviglioso paese negli ultimi trent’anni e che è sempre pronta a tentare di inquinare lo sport e i rapporti tra atleti che da amici rischiano di diventare nemici.

lunedì 12 luglio 2021

The Day After

Foto: Adnkronos

Alcune considerazioni sparse su una giornata che poteva essere ancora più epocale di quello che è stata, e per me lo è stata comunque, dato che per la prima volta ho visto un italiano in finale a Wimbledon e una vittoria della Nazionale di calcio agli Europei. Non a caso la data è l’11 luglio, lo stesso giorno della vittoria del Mundial ’82. Le mie considerazioni saranno molto terra-terra, al contrario di quelle che fanno certi grandi giornalisti tuttologi che un giorno scrivono che Mancini è stato imbrigliato tatticamente da Luis Enrique e poi, il giorno della vittoria, saltano sul carro del vincitore dicendo che ha fatto tutto alla perfezione.

Atto primo. Tutti hanno detto che Matteo Berrettini esce a testa alta dal torneo di Wimbledon e dalla finale. Verissimo, e dobbiamo solo dirgli grazie per essere stato il primo tennista di casa nostra, donne comprese, nella finale di un singolare del torneo più importante del mondo. Tuttavia a me più di un rimpianto dopo quel primo set vinto rimane. Avrei voluto vederlo più aggressivo nei game di risposta e negli scambi dal fondo, ma è chiaro che stava giocando con la macchina sparapalline più efficace e noiosa di tutta la storia del tennis e quindi non era per nulla facile. Più in generale però avrei voluto vederlo più cattivo agonisticamente, tanto più perché era alla sua prima finale e non aveva niente da perdere. Ecco, io continuo ad avere l’impressione che un esponente della nuova generazione di tennisti, che avrebbero già dovuto vincere qualcosa di molto importante (Thiem, vincitore a New York ma solo per un incredibile autogol di Djokovic, Tsitsipas, Zverev, Medvedev, Shapovalov, per non parlare di Kyrgios, ma qui si entra nel campo psicanalitico pesante) quando incontra uno dei tre più vincenti della storia del tennis (Federer, Nadal e Djokovic), sia sempre un po’ in soggezione. Cosa che fino a 20-30 anni fa non accadeva quando un giovane rampante incontrava uno dei più forti del mondo. Era un altro tennis, è vero, tecnicamente e soprattuto come preparazione fisica, e si arrivava più presto a vincere dei Major, ma forse per questo i fuoriclasse di una volta avevano la sfrontatezza che i tennisti di oggi, giovani ma non così giovani, non hanno. Purtroppo Berrettini non fa eccezione a questa regola che vale per i tennisti contemporanei e sinceramente non vedo nemmeno tutti quei margini di miglioramento che tutti sono convinti che ci saranno: merita di stare tra i primi del mondo ma comincerà a vincere, forse, quando Djokovic, Nadal e Federer (che di fatto si sta già preparando) appenderanno racchetta e scarpe al chiodo. Ma ovviamente spero di sbagliarmi.

Atto secondo. In un paese composto da 60 milioni di commissari tecnici della Nazionale italiana non ricordo un ct che li abbia messi tutti d’accordo come Roberto Mancini, neanche Bearzot, che fino al primo gol di Rossi in Italia-Brasile veniva massacrato da tutti, ma proprio da tutti. Il trionfo europeo è soprattutto del Mancio, che ha risollevato e ridato gioco a una Nazionale che tre anni fa sembrava morta e sepolta. Non ricordo che qualcuno si sia lamentato delle formazioni titolari che ha messo in campo o delle sostituzioni che ha fatto, forse perché tutti sapevano che chi giocava, o chi entrava dalla panchina, si sarebbe fatto trovare pronto e avrebbe contribuito alla causa, vedi Bernardeschi in occasione dei rigori contro la Spagna e l’Inghilterra. Mancini ha costruito una Nazionale unita come forse nessun’altra, la cui forza è quella del gruppo, non quella dei singoli: solo Donnarumma è un autentico fuoriclasse, e forse, ma solo forse, lo sono anche Federico Chiesa, Jorginho e Spinazzola, per il resto alzi la mano chi considera, per esempio, Bonucci e Chiellini superiori a Cannavaro e Nesta, per non parlare del confronto quasi imbarazzante con Baresi e, prima ancora, con Scirea. Mancini è lo stesso, ma ben pochi se lo ricordano, che ha riportato al titolo della Premier League il Manchester City dopo 44 anni di digiuno, anche se da qualche anno sembra che a vincere il campionato inglese tra gli allenatori italiani sia stato solo Claudio Ranieri e non anche Ancelotti e Mancini prima di lui e dopo di lui Conte, solo perché per un anno, e solo per un anno, gli è andato tutto bene con una squadra di scappati di casa. Non amo autocitarmi, e non ho nemmeno le doti divinatorie dei grandi giornalisti tuttologi fini analisti di cui sopra, ma dalle storie che ho pubblicato subito dopo le prime partite di questi Europei contro la Turchia e contro la Svizzera e che potete leggere in fondo a questo post avevo intuito, pur non sbilanciandomi in pronostici, che questa Nazionale poteva andare molto lontano, più lontano ancora di quella dei Mondiali di Italia 90, che rimaneva per me l'ultima grande nazionale che abbia visto prima di questa. Sono contento, per una volta, di averci indovinato.

P.S.: e ora i Giochi di Tokyo, che spero siano un’altra grande avventura per lo sport italiano.


venerdì 1 gennaio 2021

Il 2020 annus horribilis? Per me c'è stato di peggio...

Cercherò di essere sintetico e di raccontare solo le cose positive tra le tante negative che ci sono state nell’anno che se n’è appena andato e che tutti In Italia, chi più chi meno, abbiamo dovuto sopportare, molta gente piangendo anche la morte di persone care. Perché il 2020 non è stato un annus così horribilis per me: per esempio il 2018 e i primi undici mesi del 2019 sono stati molto peggiori, per non parlare del 2016, il peggiore di tutta la mia vita. Nel 2020 c’è stato il lockdown ma io è dal 2013 che lavoro da casa, quindi posso dire di esserne stato un precursore seriale. Nel 2020 ho imparato a stare vicino, anche se da lontano, a chi mi merita e a chi mi stima e mi vuole bene, persone che già sapevo amiche e persone che ho conosciuto meglio o che ho ritrovato, ma anche a stare lontano da chi non ha fatto altro che farmi la guerra anche quando, da ingenuo quale sono, non lo sapevo, o da chi, semplicemente, mi diceva che ero bravo ma in realtà non gliene fregava niente di me. Nel 2020 ho cercato di liberare la mia anima dai fantasmi che l’hanno sempre popolata: non è un processo facile, perché sono un pessimista naturale, ma diciamo che negli ultimi tredici mesi la mia autostima ha provato a crescere dentro di me, proprio io che l’ho sempre combattuta, ed è cresciuta ulteriormente nell’ultimo mese. Come ho già detto a Natale, ora sono più sereno, e non improvvisamente da oggi o da una settimana o da un mese, ma mi accorgo di esserlo diventato gradualmente, appunto, da un anno o poco più. E ora mi sto perfino quasi convincendo che chi semina odio o chi si crede dio in terra raccoglie tempesta, mentre chi si fa un mazzo tanto restando sempre sull’orlo del precipizio senza avere la minima certezza di potersi salvare dalla caduta alla fine forse può venire premiato. Auguro a me stesso che il 2021 rinsaldi in me questa convinzione e mi auguro anche, oltre che di continuare a riuscire a convivere coi miei acciacchi fisici, in parte dovuti al problema che avevo fino a poco più di due anni fa (e chi mi conosce sa di cosa sto parlando), di poter tornare a vedere le facce amiche di sempre che l’anno appena concluso mi ha negato, comprese quelle di quasi tutti i miei familiari, e di rivedere anche i luoghi a me cari, come il mio paesello, che nel 2020 per la prima volta dopo quasi 50 anni non sono riuscito a vedere neanche per un solo giorno. Buon 2021 a tutti.

sabato 12 settembre 2020

1000 Gran Premi iridati della Ferrari. Ecco invece quelli che ha saltato


Finora la Ferrari ha corso 999 Gran Premi sul totale di 1026 validi per il Mondiale di Formula 1 e domenica prossima al Mugello festeggerà il millesimo. La casa di Maranello ne ha quindi saltati solo 27 in tutta la storia. Vediamo quali sono stati.


GRAN PREMIO DI GRAN BRETAGNA E D’EUROPA 1950

Il primo Gran Premio che assegnava punti per il titolo iridato piloti fu quello corso a Silverstone il 13 maggio 1950 ma la Ferrari non lo disputò perché il Drake, Enzo Ferrari, giudicò troppo basso l’ingaggio offerto dagli organizzatori inglesi. La casa di Maranello non portò vetture ufficiali nel Gran Premio di Francia del 2 luglio dello stesso anno ma il britannico Peter Whitehead gareggiò con la sua vettura del cavallino privata, per cui la gara di Reims non è compresa in questo elenco.


GRAN PREMIO DI GRAN BRETAGNA 1959

Questo, disputato il 18 luglio 1959 a Aintree, fu il primo di alcuni Gran Premi disertati dalla Ferrari per uno sciopero degli operai in fabbrica, che non permise l’adeguata messa a punto delle vetture. Al pilota di punta del cavallino, il beniamino di casa Tony Brooks, vincitore tra l’altro del Gran Premio precedente, quello di Francia, e di quello successivo in Germania al volante della Rossa di Maranello, fu permesso di gareggiare al volante di una Vanwall, vettura con cui aveva corso nei due anni precedenti, ma si ritirò al 14° giro per problemi al motore. Anche a causa di questo forfait il pilota inglese perderà il titolo mondiale a favore di Jack Brabham sulla sua Cooper con motore Climax posteriore.


GRAN PREMIO DEGLI STATI UNITI 1960

Enzo Ferrari, a campionato già abbondantemente chiuso e privo di soddisfazioni a parte il dominio nel Gran Premio d’Italia del 4 settembre, peraltro disertato dalle scuderie inglesi per protesta contro la pericolosità dell’anello sopraelevato ad alta velocità, decise di non effettuare la trasferta oltreoceano per la gara di Riverside del 20 novembre 1960 e di concentrare gli sforzi del team sulla nuova vettura che, con un nuovo regolamento (cilindrata dei motori ridotta da 2500 a 1500 cc) avrebbe dominato il mondiale dell’anno successivo.


GRAN PREMIO DEGLI STATI UNITI 1961

Stesso copione dell’anno precedente, con la differenza che la Ferrari non disputa la gara dell’8 ottobre 1961 a Watkins Glen perché il titolo è già assegnato al suo pilota, lo statunitense Phil Hill, molto amareggiato per non poterlo festeggiare davanti al suo pubblico, ma soprattutto a causa della morte insieme a 14 spettatori il 10 settembre precedente a Monza dell’altro ferrarista Wolfgang von Trips: Enzo Ferrari, travolto dalle polemiche seguite all’incidente, decide di far rimanere a casa i suoi piloti.


GRAN PREMIO DI FRANCIA 1962

Uno sciopero generale sindacale impedisce la partecipazione alla corsa dell’8 luglio 1962 sul circuito di Rouen-les-Essarts alla scuderia del Drake.


GRAN PREMIO DEGLI STATI UNITI 1962

Per il terzo anno consecutivo la Ferrari diserta la gara oltre Atlantico: nessun pilota della casa di Maranello è in corsa per il titolo mondiale e quindi, per loro, niente gara a Watkins Glen il 7 ottobre 1962.


GRAN PREMIO DEL SUDAFRICA 1962

Idem come sopra: la casa di Maranello rinuncia anche alla prima gara iridata sudafricana della storia della Formula 1 a East London il 29 dicembre 1962. Per la prima e unica volta la Ferrari ha saltato tre gare (su nove!) in un solo anno.


GRAN PREMIO DI GRAN BRETAGNA 1966

Altro sciopero dei metalmeccanici e altro forfait della casa di Maranello, che non corre sullo stupendo circuito di Brands Hatch il 16 luglio 1966.


GRAN PREMIO DEL MESSICO 1966

Già dal precedente Gran Premio degli Stati Uniti la Ferrari aveva annunciato che avrebbe disertato l’ultima gara dell’anno, il 23 ottobre 1966 sul circuito Magdalena Mixuca di Città del Messico. Il Drake, oltretutto ancora amareggiato per la disfatta nella 24 ore di Le Mans che aveva visto il trionfo della Ford, rinunciava spesso alle ultime gare stagionali quando era fuori dalla lotta per il titolo sia piloti che costruttori, per fortuna questa sarà l’ultima.


GRAN PREMIO DEL SUDAFRICA 1967

Oltre all’ultima dell’anno precedente, la casa del cavallino rampante salta anche la prima gara del 1967, disputata il 2 gennaio 1967 sul circuito di Kyalami, per la prima volta sede di un Gran Premio iridato. A causare il forfait è l’ennesimo sciopero sindacale.


GRAN PREMIO DI MONACO 1968

Ancora scottato dalla morte, l’anno precedente, di Lorenzo Bandini alla chicane del porto monegasco tra le fiamme della sua Ferrari il Drake rinuncia alla corsa del 26 maggio 1968. Le ragioni non vengono spiegate ma si pensa che il commendatore ritenga insufficienti le misure di sicurezza del tracciato di Montecarlo, tra cui lo spostamento in avanti della chicane e la decisione di accorciare il Gran Premio da 100 a 80 giri per evitare l’eccessiva stanchezza dei piloti: l’incidente di Bandini era avvenuto all’82° giro. Altri ipotizzano che la cifra di ingaggio non sia stata ritenuta sufficiente dai vertici di Maranello.


GRAN PREMIO DI GERMANIA 1969

Viste le disastrose prestazioni dell’ultima versione della 312 nelle prime gare stagionali (solo 4 punti iridati, corrispondenti a un terzo posto in Olanda di Chris Amon, che abbandonerà la casa di Maranello prima della fine dell’anno), la Ferrari decide di concentrarsi sullo sviluppo della nuova 312B con motore boxer, che peraltro debutterà solamente l'anno dopo, e salta il Gran Premio del Nurburgring del 3 agosto 1969.


GRAN PREMIO D’OLANDA 1973

Come quella del 1969 la stagione della Ferrari si rivela disastrosa: la seconda versione della 312B3, quasi contemporanea alla cosiddetta “Spazzaneve” che non gareggiò mai, non va avanti neanche a spingerla, tanto da non portare mai i suoi piloti sul podio. Pertanto le Rosse non partecipano alla corsa sul circuito di Zandvoort del 29 luglio 1973.


GRAN PREMIO DI GERMANIA 1973

L’assenza della Ferrari si prolunga per il secondo Gran Premio consecutivo dato che la scuderia preferisce sviluppare la monoposto per la stagione successiva, quando la 312B3, nella sua terza e ultima versione, sarà finalmente competitiva per il titolo. Ma il 5 agosto 1973 sul Nurburgring il pilota di punta di Maranello, Jacky Ickx, viene prestato alla McLaren con la quale ottiene un grande terzo posto.


GRAN PREMIO D’AUSTRIA 1976

Il 15 agosto 1976 è in programma a Zeltweg la gara di casa di Niki Lauda, campione del mondo in carica e nettamente in testa al mondiale, ma rimasto gravemente ferito nell’incidente del Nurburgring dell’1 agosto. Il 5 il fuoriclasse austriaco, ricoverato all’ospedale di Mannheim ma già cosciente da un paio di giorni, viene dichiarato fuori pericolo, ma contemporaneamente Enzo Ferrari annuncia con effetto immediato la sospensione della partecipazione al campionato del mondo. In pratica la Ferrari si ritirava dalle corse a tempo indeterminato. Un colpo di scena clamoroso, dettato, a dire del Drake, dalle decisioni della FIA contrarie alla Scuderia relative agli ordini di arrivo del Gran Premio di Spagna e di Gran Bretagna, la cui vittoria venne assegnata in entrambi i casi da Hunt (ma la seconda sentenza verrà poi ribaltata e la vittoria assegnata a Lauda dopo la squalifica dell’inglese). Ferrari esprimeva anche una grande contrarietà perché tutto l’ambiente dell’automobilismo gli era contro, compreso quello italiano, rappresentato da ACI e CSAI (Commissione Sportiva Automobilistica Italiana). La mossa ebbe la conseguenza di attrarre dalla propria parte l’automobilismo italiano tutto e anche parte di quello internazionale, e il 14 il Drake annunciò l’eventualità di un ritorno, precisando che lui sarebbe andato avanti per la propria strada se fosse dipeso da lui, ma facendo ormai parte dal 1969 di una famiglia più grande, ossia la Fiat, avrebbe dovuto rimettersi alle sue decisioni. E infatti il 23 il consiglio di amministrazione della Ferrari, targato Fiat, votò per il ritorno alle corse già dal Gran Premio d’Olanda del 29 agosto, e Ferrari, astenutosi dal voto, ne uscì senza danni, anzi, implicitamente risultò come colui che si era dovuto piegare alla volontà di chi stava sopra di lui anche dal punto di vista agonistico e non solo amministrativo. Ma intanto il Gran Premio d’Austria si era disputato senza la casa di Maranello. Questo fu il forfait più controverso da parte della Ferrari. Per conto mio, dato che alla fine dell’anno Hunt vinse il mondiale con un solo punto su Lauda, tornato clamorosamente alle corse a Monza sei settimane dopo l’incidente, la decisione del ritiro a tempo indeterminato fu un errore gravissimo, visto che in Austria Hunt, in grande rimonta su Lauda nella classifica mondiale, dovette accontentarsi del quarto posto pur senza piloti Ferrari a contrastarlo, e che in Olanda corse solo Regazzoni, che fu secondo proprio dietro l’inglese. Un altro fattore che pesò immensamente fu il mancato temporaneo ingaggio di un altro pilota, che si concretizzò solo a Monza con Carlos Reutemann. Prima Ferrari contattò Emerson Fittipaldi, che rifiutò, poi la March gli offrì in prestito Vittorio Brambilla e stavolta fu il Drake a rifiutare. Infine fu messo nel mirino Ronnie Peterson ma qui fu lo stesso Lauda, spalleggiato da Luca di Montezemolo e dai vertici Fiat, a porre il veto. C’è chi ha raccontato che il colloquio tra Niki e l’ex (in quel momento) direttore sportivo della Ferrari, sia avvenuto addirittura il 4 agosto a Mannheim in ospedale e che Ferrari, venuto a sapere del “nicht" di Lauda sia andato su tutte le furie con la proprietà Fiat e che questa sia stata la goccia che fece traboccare il vaso e che gli fece annunciare la sospensione dall’attività il giorno dopo.


GRAN PREMIO DEL BELGIO 1982

L’8 maggio 1982 durante le qualificazioni sul circuito di Zolder Gilles Villeneuve disintegra la sua Ferrari e se stesso in un terrificante incidente in cui è coinvolto quasi inconsapevolmente anche Jochen Mass con la sua March, il canadese come al solito stava andando oltre il limite per battere il compagno di squadra Didier Pironi, che lo aveva beffato due settimane prima a Imola e dal quale si era sentito tradito. La tragica morte di Gilles, che sarebbe dovuto partire dall’ottava posizione in griglia e Pironi dalla sesta, porta la Ferrari a rinunciare alla gara in segno di lutto.


GRAN PREMIO DI SVIZZERA 1982

Il 7 agosto, nelle qualificazioni del Gran Premio di Germania a Hockenheim, Pironi, leader del mondiale, ha un incidente molto simile a quello di Villeneuve volando oltre la Renault di Alain Prost e la ricaduta a terra gli costa fratture gravissime alle gambe e la fine della carriera in Formula 1. Il suo connazionale Patrick Tambay, sostituto di Gilles, vince la corsa, una settimana dopo è quarto in Austria con l’unica Ferrari in gara. Sempre da solo, dato che la casa di Maranello non ha ancora trovato un uomo col quale rimpiazzare Pironi, si presenta sul circuito francese di Digione per il Gran Premio elvetico del 29 agosto. Ma Patrick ha un forte dolore alle vertebre cervicali con interessamento del nervo radiale destro, conseguenza di un vecchio incidente, e nelle qualificazioni del venerdì ottiene il nono tempo indossando un collare e, dopo le libere, decise di non disputare la sessione di qualificazione del sabato. Purtroppo per Tambay il dolore lo costrinse a rinunciare alla gara. La Ferrari, ultimo episodio di una stagione maledetta, saltò in questo modo per l’ultima volta un Gran Premio iridato, disputandone poi 655 consecutivi, che domenica diventeranno 656.


500 MIGLIA DI INDIANAPOLIS 1950, 1951, 1953, 1954, 1955, 1956, 1957, 1958, 1959 e 1960

Chi di voi ha avuto la forza e la pazienza di riuscire a leggere queste righe fino a qui si sarà accorto che i Gran Premi mondiali disertati dalla Ferrari da me elencati sono 17 e non 27. No, non mi sono sbagliato: la casa di Maranello saltò infatti anche dieci delle undici edizioni della 500 miglia di Indianapolis che dal 1950 al 1960 furono valide per il titolo mondiale. I motivi sono ovvi: Ferrari non voleva sobbarcarsi una trasferta che avrebbe visto le sue vetture confrontarsi con altre completamente diverse e molto più adatte all’ovale dell’Indiana. Solo una volta il Drake tentò l’avventura a Indy: il 30 maggio 1952 Alberto Ascari, che a fine anno conquisterà il titolo iridato, si presentò al via al volante di una 375S con motore V12 di 4500 cc, evoluzione della 375 con cui aveva gareggiato nel mondiale dell’anno prima. Il milanese partì in settima fila con la diciannovesima somma di tempi dei suoi quattro giri in qualificazione, ma in gara, al 41° dei 200 giri totali, gli si ruppe il cuscinetto di una ruota e fu costretto al ritiro. Altre tre Rosse dello stesso modello erano iscritte, sotto i colori di altre scuderie, ma o non scesero nemmeno in pista o non riuscirono a qualificarsi.


Foto: Instagram Scuderia Ferrari

mercoledì 9 settembre 2020

Monaco 1950, il primo dei (quasi) 1000 Gran Premi iridati della Ferrari


Domenica prossima sul circuito del Mugello, sede inedita di un Gran Premio del campionato del mondo di Formula 1, la Ferrari festeggerà (si fa per dire, vista la disastrosa situazione attuale del team) il 1000° Gran Premio iridato della sua storia. Ma qual è stato il primo disputato dalla casa di Maranello? Non fu quello di Gran Bretagna e d’Europa del 13 maggio 1950, di cui ho già parlato qui, che Enzo Ferrari decise di disertare perché riteneva troppo basso l’ingaggio offertogli dagli organizzatori, bensì quello immediatamente successivo, quello di Monaco del 21 maggio 1950, che vale la pena di raccontare.


In quell’occasione la Scuderia Ferrari schierò tre vetture ufficiali modello 125 con motore 12 cilindri a V di 1500 cc sovralimentato e con al volante i milanesi Alberto Ascari e Luigi Villoresi e il francese Raymond Sommer. A queste si aggiunse una quarta vettura dello stesso tipo pilotata dal suo proprietario, il britannico Peter Whitehead, il primo a cui il Drake cedette una vettura di Formula 1, che però a causa di molteplici problemi meccanici durante le prove non parteciperà alla gara. Le favoritissime erano le Alfa Romeo 158 dominatrici la settimana precedente a Silverstone con tre vetture ai primi tre posti, guidate nell’ordine da Giuseppe “Nino” Farina, Luigi Fagioli e Reg Parnell, che doppiarono di almeno due giri tutti gli avversari, e che sarebbero state quattro se l’argentino Juan Manuel Fangio non avesse dovuto ritirarsi a otto giri dal termine. I tre F, Farina, Fangio e Fagioli, difesero i colori della casa del Portello anche nel Principato.


C’erano anche le Maserati, le due ufficiali con Franco Rol e il monegasco Louis Chiron, due della scuderia Achille Varzi con gli altri due argentini Froilan Gonzales e Alfredo Pian (che darà forfait a causa di un incidente nelle prove del sabato che gli costerà una frattura a una gamba), e sei Talbot Lago, delle quali però solo tre gareggeranno, con i francesi Philippe Etancelin e Louis Rosier e il belga Johnny Claes, senza dimenticare le due Simca-Gordini coi due transalpini Robert Manzon e Maurice Trintignant, le Maserati della Scuderia Enrico Platé col principe thailandese Bira e lo svizzero Emmanuel de Graffenried, le britanniche ERA di Bob Gerard e Cyth Harrison e l’innovativa Cooper motorizzata JAP guidata dallo statunitense Harry Schell e col propulsore posizionato nella parte posteriore della vettura.


Le qualificazioni si svolgono, come da tradizione nel Principato, il giovedì e il sabato, e gli organizzatori stabiliscono che i primi cinque della sessione del primo giorno occuperanno le prime due file della griglia di partenza. Questo regolamento penalizza nettamente la Ferrari, che arriva a Montecarlo solo per le prove del sabato. Fangio il giovedì ottiene il miglior tempo in 1’50”2 a 103,884 km/h, una media che oggi fa sorridere anche per un circuito tortuoso come quello monegasco. Farina è secondo a 2”6 mentre Gonzales completa la prima fila, in seconda c’è il bravo Etancelin mentre la terza Alfa, quella di Fagioli, è quinta.


Il sabato scendono in pista finalmente le Ferrari e le Simca-Gordini, anch’esse assenti 48 ore prima. Nessuno dei primi cinque si migliora tranne Fagioli che con 1’51”7 stacca il secondo miglior tempo assoluto delle due giornate. A realizzare il terzo crono, mezzo secondo meglio di Farina, è Villoresi, ma il pilota della Ferrari dovrà accontentarsi della sesta posizione e della terza fila in griglia, così come Fagioli è costretto a partire quinto, Ascari realizza invece il sesto tempo assoluto ma partirà in settima posizione, Sommer dal canto suo è nono e si avvierà in quarta fila. Per giunta la sessione viene sospesa prima della fine a causa di una cospicua perdita d’olio della Ferrari di Ascari.


La domenica della gara è caratterizzata da un sole splendido. Al via Fangio scatta in testa davanti a Gonzales, Villoresi e Farina, alla curva della stazione, ora nota come tornante del Grand Hotel, e prima ancora curva Loews, Villoresi supera Gonzales e poco dopo, nel tunnel, ci riesce anche Farina. Alla curva del tabaccaio però un po’ d’acqua di un’onda del mare si deposita sulla strada e il torinese, forse anche per una toccata con l’argentino o forse contro il muro, va in testacoda e Gonzales lo urta. Fagioli, che sopraggiunge, riesce a evitare i due ma si gira a sua volta e viene investito da Rosier, si sviluppa così un colossale incidente che vede coinvolti e costretti al ritiro Manzon, De Graffenried, Trintignant, Harrison, Rol (che si ferisce a un braccio) e Schell, oltre a Farina.


Fagioli riesce a ripartire ma solo per arrivare ai box e ritirarsi, Gonzales invece completa il primo giro alle spalle di Fangio e Villoresi e davanti a Chiron, Ascari, Sommer, Etancelin, Bira, Claes e Gerard. I primi due arrivano sul luogo dell’incidente senza essere informati di nulla e i commissari, invece di interrompere la gara con la bandiera rossa, espongono solo quella gialla, fatto sta che Fangio, che è il numero uno assoluto a districarsi in queste situazioni ingarbugliate, riesce a evitare tutti gli altri senza alcun problema e da quel momento nessuno lo rivedrà più fino a fine gara se non quando qualcuno subirà il doppiaggio da parte sua. Villoresi invece rimane bloccato, gli si spegne anche il motore e riparte in ultima posizione, mentre Gonzales va a sbattere alla curva del gasometro, il serbatoio si rompe e la Maserati prende fuoco, l’argentino salta subito fuori dalla vettura ma subisce ustioni di secondo grado al braccio.


In seconda posizione balza così Sommer davanti a Chiron e Ascari ma il milanese al terzo giro prende lui la piazza d’onore, mentre Villoresi rimonta furiosamente tanto che al 12° giro è già terzo dopo aver scavalcato Sommer, il ferrarista e il suo compagno di squadra e concittadino Ascari. Dal 31° al 33° passaggio i due si alternano in seconda posizione, poi al 36° Villoresi effettua il rifornimento seguito il giro seguente da Ascari che impiega cinque secondi in più e deve cedere la seconda posizione. Poco dopo metà gara (prevista su 100 giri) Fangio, che ha un vantaggio abissale su tutti, effettua il rifornimento e quando rientra in pista ha ancora 32 secondi di margine su Villoresi che poco dopo però viene superato da Ascari e al 64° giro si deve ritirare per la rottura dell’assale posteriore. Al 37° giro si era ritirato anche Etancelin, quando era sesto dietro a Chiron e a Sommer, per la rottura di un condotto dell’olio.


Fangio stabilisce anche il giro più veloce della corsa in 1’51”0 e dopo oltre tre ore taglia il traguardo con una media di 98,701 km/h, unica gara non interrotta sotto i 100 orari della storia della Formula 1. L’argentino diventa il primo a completare il Grand Chelem in un Gran Premio iridato, ossia pole position, vittoria, giro più veloce e in testa dall’inizio alla fine, e appaia Farina in vetta alla classifica del campionato precedendo Ascari di un giro, Chiron di due, Sommer di tre, Bira, quinto e ultimo in zona punti, di cinque, Gerard e Claes di sei: solo 7 vetture su 19 hanno visto la bandiera a scacchi! Nuova vittoria dell’Alfa Romeo che però non è riuscita a dominare a causa dell’incidente a inizio gara, mentre la Ferrari, pur surclassata in prestazioni e affidabilità dalla rivale milanese, non ha sfigurato al suo esordio iridato piazzando due vetture tra le prime quattro. Tutto quello che è seguito fino a oggi per la casa di Maranello, come si suol dire, è storia.

sabato 5 settembre 2020

50 anni fa moriva a Monza Jochen Rindt, campione del mondo alla memoria


Il 5 settembre 1970 è una giornata che è diventata tragicamente storica: nelle qualificazioni del sabato della vigilia del Gran Premio d’Italia a Monza moriva Jochen Rindt, che un mese dopo diventerà, oltre che il primo iridato austriaco di Formula 1, anche il primo, e finora unico (per fortuna) campione del mondo alla memoria.


Rindt era nato il 18 aprile 1942 a Magonza, in Germania, da padre tedesco e madre austriaca. Nel 1943 perse entrambi i genitori, che morirono sotto i terribili bombardamenti alleati di Amburgo, e fu affidato ai nonni materni, residenti a Graz, città austriaca capoluogo del Land della Stiria, dove il piccolo Jochen crebbe. Si appassionò alle corse automobilistiche e fin dalle categorie minori mise in mostra una guida coraggiosa e aggressiva che ha pochi eguali nella storia.


Esordì in Formula 1 molto giovane nel Gran Premio di casa del 1964 al volante di una Brabham motorizzata BRM della scuderia di Rob Walker. Dopo aver vinto nel 1965 la 24 ore di Le Mans alla guida di una Ferrari 250 LM, e mentre fa incetta di vittorie in Formula 2, comincia a prendersi qualche soddisfazione in Formula 1 nel 1966 conquistando due secondi e un terzo posto con una Cooper motorizzata Maserati sfiorando il successo in Belgio, sul vecchio, fantasmagorico e ultraveloce circuito di Spa-Francorchamps, e chiude terzo il campionato. Le due stagioni successive però sono difficili, nella seconda delle quali, con una Brabham con motore Repco, binomio che aveva vinto gli ultimi due mondiali, raccoglie solo due terzi posti, conquistando però le prime due delle sue dieci pole position in carriera.


Nel 1969 passa alla Lotus di Colin Chapman ma l’inizio del campionato è drammatico: nel Gran Premio di Spagna al Montjuich gli si stacca l’alettone posteriore, che aveva enormi dimensioni, e la vettura vola contro le barriere e si ribalta colpendo la vettura del suo compagno di squadra e iridato in carica Graham Hill, ferma a bordo pista perché aveva avuto la stessa identica rottura meccanica. Rindt miracolosamente se la cava con una lieve commozione cerebrale e la frattura del naso. Dopo questo incidente le dimensioni degli alettoni verranno regolamentate e notevolmente ridotte. Piano piano Jochen si riprende, è sempre velocissimo in qualificazione tanto da conquistare cinque pole position, e verso la fine della stagione è secondo a Monza, battuto di un soffio in volata dal suo grande amico Jackie Stewart, e terzo in Canada, poi finalmente coglie la prima vittoria a Watkins Glen, negli Stati Uniti, partendo dalla pole e stabilendo anche il giro più veloce. In campionato finisce al quarto posto.


Ma è il 1970 a proiettarlo definitivamente nell’Olimpo. Chapman ha un’arma letale, sia per gli avversari sia, come vedremo, per i suoi stessi piloti, da mettere in pista: è la Lotus 72, una monoposto rivoluzionaria a livello aerodinamico caratterizzata dalla parte anteriore che viene ribattezzata “a cuneo”. L’esordio della vettura in Spagna, a Jarama, è negativo, tanto che Rindt torna alla vecchia 49C, con la quale vince il Gran Premio di Monaco grazie a un incredibile errore del vecchio Jack Brabham, che quando è in testa ma insidiato dall’austriaco all'ultimo giro della corsa sbaglia la frenata e va a sbattere contro il guard-rail di quella che era allora l’ultima difficoltà del circuito di Montecarlo, la curva del gasometro. Due Gran Premi più tardi Rindt torna al volante della 72 che ora, nella sua ultimissima versione, la C, diventa imbattibile: vince quattro gare consecutive in Olanda, Francia, Gran Bretagna e Germania, e la serie si interrompe proprio a casa sua, in Austria, quando viene tradito dal motore in quello che diventerà, purtroppo, il suo ultimo Gran Premio, il 60°.


E si arriva a quel maledetto 5 settembre a Monza: sono da poco passate le 15,15 quando Rindt sta effettuando il quinto giro consecutivo della sua seconda giornata di qualificazioni per il Gran Premio d'Italia per cercare un tempo che lo porti nelle zone alte della griglia di partenza. Arriva alla staccata della Parabolica e la sua Lotus 72, quando Jochen tocca i freni, comincia a sbandare più volte a destra e a sinistra (ma alcuni testimoni dissero che queste sbandate non ci furono), infine, quasi all’entrata curva, punta dritto contro il guard-rail alla sua sinistra. L’impatto, a circa 240 all'ora, è devastante: la gomma anteriore sinistra si stacca, il musetto striscia impercettibilmente (a causa della velocità con cui accade tutto) contro la barriera, poi la gomma anteriore di destra si stacca a sua volta di netto finendo in una buca probabilmente scavata in precedenza dai tifosi sotto il guard-rail, la buca è in corrispondenza di un paletto di sostegno che fa da perno, l'avantreno si disintegra all'istante e la vettura senza controllo effettua numerosi testacoda nella sabbia all’esterno della curva dove alla fine si ferma. La scena che si presenta ai soccorritori è terrificante: Rindt è quasi disteso sul sedile e le sue gambe sono esposte, perché la scocca anteriore non c’è più. Nell’impatto si è fratturato il piede sinistro ma soprattutto ha subito una ferita mortale al torace causata dal piantone dello sterzo, contro cui Rindt va a sbattere, inoltre le cinture di sicurezza si rompono ferendolo al collo. Trasportato d’urgenza all’Ospedale Niguarda a Milano, non si poté far altro che accertarne il decesso. La causa dell’incidente è ancora incerta: una delle ipotesi più accreditate è che si sia spaccato l'albero che collega l'impianto frenante alle ruote anteriori facendo perdere completamente il controllo della vettura al pilota.


In occasione del Gran Premio di Gran Bretagna a Brands Hatch di un mese e mezzo prima, vinto nelle ultimissime battute ancora una volta ai danni di Brabham, rimasto senza benzina, Rindt dichiarò: “Quest’anno ho troppa fortuna, comincio a essere preoccupato”. Si rivelò una tragica profezia. Il 28enne austriaco, al momento della morte e con quattro gare ancora da disputare, aveva 20 punti di vantaggio su Brabham, 25 su Denny Hulme, che sulla sua McLaren assistette inorridito all’incidente in quanto subito alle spalle di Rindt e venendo anche sfiorato dalla gomma anteriore sinistra impazzita della Lotus, e 26 su Stewart e sul portacolori della Ferrari Jacky Ickx. Sarà quest’ultimo, già vincitore in Austria davanti al compagno di squadra Clay Regazzoni, a recuperare la maggior parte del distacco accumulato da lui e da tutti gli altri nei confronti di Rindt. Il belga primeggerà infatti anche in Canada e in Messico, sempre con il ticinese secondo, ma si ritirerà a Monza, dove a vincere per la prima volta in Formula 1 sarà proprio Regazzoni, 31 anni compiuti, guarda la coincidenza, proprio 24 ore prima e letteralmente portato in trionfo a fine corsa dai tifosi del Cavallino impazziti per la gioia e completamente dimentichi della tragedia del sabato. La gara che però assegnerà matematicamente a Rindt il titolo postumo sarà la penultima di quell’anno, il Gran Premio degli Stati Uniti del 4 ottobre a Watkins Glen, proprio dove Jochen aveva vinto la sua prima corsa iridata dodici mesi prima, e ancora una volta si tratterà di un primo successo in carriera: a trionfare sarà infatti quello che era diventato di fatto il sostituto di Rindt, il giovane brasiliano Emerson Fittipaldi. Ickx si dovrà accontentare del quarto posto e dopo la doppietta Ferrari in Messico Rindt risulterà vincitore del titolo con 5 punti su Ickx e 12 su Regazzoni. Una stagione tragica ma che andrà giustamente a premiare colui che nell'arco dell'anno era stato nettamente il più forte.