sabato 3 settembre 2022

I primi 100 anni del circuito di Monza

Oggi si celebra una data storica per l’automobilismo italiano e mondiale: esattamente 100 anni fa, il 3 settembre 1922, veniva infatti disputata la prima gara all’Autodromo Nazionale di Monza, che divenne in quel momento, il quarto circuito permanente della storia degli sport motoristici, dopo quello di Milwaukee, quello britannico di Brooklands e il leggendario ovale di Indianapolis, l’unico rimasto insieme a quello brianzolo.

La costruzione di quello che veniva chiamato nelle cronache dell’epoca "Circuito di Milano", un po’ comicamente a pensarci oggi, fu decisa nel gennaio di quello stesso 1922 dall’Automobile Club proprio di Milano, per festeggiare il 25° anno dell’associazione, e come sede fu scelto il Parco di Monza. Questa decisione scatenò subito violente polemiche, che da parte degli ambientalisti durano ancora oggi ed è uno dei motivi, oltre che quello delle altissime velocità che vi si raggiungono specialmente in Formula 1 malgrado l’inserimento nel corso degli anni di svariate chicane, per i quali un impianto sportivo così importante viene messo in discussione un anno sì e l’altro pure.

Il progetto iniziale prevedeva una pista di 14 km ma alla fine, dopo che il 26 febbraio Felice Nazzaro, uno dei migliori piloti dell’epoca, e Vincenzo Lancia, il fondatore dell’omonima casa automobilistica, avevano tracciato il primo solco del futuro circuito, si dovette ripiegare, per il minore impatto ambientale, su un circuito di 5,5 km più un anello di alta velocità di 4,5 km per un totale di 10 km esatti. La Società Incremento Autodromo e Sport (SIAS) presieduta dal senatore Silvio Crespi si accordò con l’Opera Nazionale Combattenti, l’ente a cui era affiliato il Parco.

I lavori, eseguiti dall’Impresa Piero Puricelli, iniziarono solo il 15 maggio, dodici giorni dopo l’approvazione del progetto definitivo, a meno di quattro mesi dalla data prevista per la seconda edizione del Gran Premio d’Italia, che sarebbe stata ospitata dal nuovo impianto dopo che il 4 settembre 1921 si era disputata la prima edizione sul circuito stradale di Montichiari, in provincia di Brescia, di 17,3 km da ripetere 30 volte e che aveva visto la vittoria del francese Jules Goux su Ballot alla media di 144,736 km/h. I lavori, comprendenti le strade di comunicazione interne, le tribune e i box, furono completati in soli 110 giorni, un record per un impianto di quella portata. Nel frattempo, il 28 luglio, Nazzaro e Pietro Bordino, altro grande pilota, la percorsero per la prima volta al volante di due Fiat 501, mentre le auto da corsa vi fecero il loro primo ingresso di prova il 20 agosto.

E si arriva così al fatidico 3 settembre, quando, alla presenza del presidente del consiglio Luigi Facta (colui che cadrà meno di due mesi dopo a causa della cosiddetta "marcia su Roma") e sotto la pioggia per gran parte della sua durata, si disputa la gara riservata alle cosiddette Vetturette, 1500 cc di cilindrata e 450 kg di peso minimo. Alla partenza si schierano nove vetture, delle quali quattro sono Fiat, che dopo 60 giri e 600 km si classificano ai primi quattro posti. A vincere, dopo essere partito a sorte dalla prima fila (le qualifiche erano ancora di là da venire) è Bordino sul modello 501 per le corse, che completa la distanza in 4h28’38”6 alla media di 134,007 km/h. Secondo è Enrico Giaccone a oltre cinque minuti e mezzo, terzo Evasio Lampiano a quattro decimi da Giaccone, quarto Carlo Salamano a quasi sette minuti da Bordino. Quinto, a quasi un’ora dal vincitore, la prima vettura non Fiat, la Chiribiri di Maurizio Ramassotto.

Il successivo 8 settembre si corre il Gran Premio motociclistico delle Nazioni con la vittoria assoluta di Amedeo Ruggeri su Harley Davidson 1000 e con quella di Ernesto Gnesa con la Garelli 350 due tempi nella classe 500. Il 10 settembre è la volta del Gran Premio d’Italia, riservato a vetture da 2000 cc e peso minimo di 650 kg. Alla vigilia, durante il sabato delle prove libere, come si chiamerebbero oggi, c’è la prima delle tante tragedie di questo circuito, la morte di Gregor Kuhn, pilota dell’Austro-Daimler, e il ferimento del suo meccanico e compagno di abitacolo Robert Felder. La marca austriaca si ritira in segno di lutto dalla gara dell’indomani, prevista stavolta su 80 giri per 800 km totali, che dei 38 iscritti vede al via solo 8 piloti, tra i quali tre della Fiat e lo spagnolo Pierre de Vizcaya con la Bugatti, per la cui partecipazione pare siano state fatte pressioni sul costruttore, Ettore Bugatti, che non voleva gareggiare a causa della superiorità delle Fiat, per schierare il suo pilota al via, cosa che avrebbe comportato il rinvio della partenza dalle 9 alle 9,30 del mattino.

La vittoria, sotto gli occhi di una folla incredibile di centomila spettatori entusiasti, va, ancora una volta come una settimana prima e ancora una volta con la pioggia che ostacola lo svolgimento della corsa nella prima parte, a Bordino, su Fiat 804, in 5h43’13" alla media di 139,853 km/h, inferiore a quella fatta registrare da Goux un anno prima a Montichiari. Secondo a 8’22" è Nazzaro, compagno di squadra di Bordino. Solo un’altra vettura arriva al traguardo: quella dello spagnolo Pierre de Vizcaya su Bugatti, staccato di 4 giri e fermato dall'invasione di pista da parte del pubblico: nonostante non abbia completato tutti gli 80 giri in programma (non come oggi, quando se uno è doppiato viene comunque fermato dalla bandiera a scacchi), cosa che con i regolamenti di allora comporterebbe la squalifica, viene ugualmente classificato in terza posizione. La terza Fiat, quella di Giaccone, rimane ferma alla partenza con la trasmissione fuori uso.

Dopo queste prime tre gare, tutto il resto, come si dice, è storia, fatta di molte gare memorabili ma anche di tragedie. Il Gran Premio d’Italia da allora si è disputato ogni anno quasi ininterrottamente (quella che andrà in scena domenica 11 settembre sarà la sua novantaduesima edizione, l'ottantasettesima a Monza), tranne nel 1929 e nel 1930 in seguito alla tragica morte di Emilio Materassi e di 27 spettatori nel 1928, e poi dal 1939 al 1946 a causa della guerra. Inoltre, dal 1922 in poi, la gara si è sempre disputata a Monza tranne nel 1937 (Livorno), 1947 (Milano, per davvero!), 1948 (Torino, al Valentino), e infine nel 1980, quando a Imola si corse l’unica edizione del Gran Premio d’Italia non disputata a Monza a partire dalla nascita del campionato del mondo di Formula 1 nel 1950.

Il circuito è stato modificato innumerevoli volte, per esempio con la creazione della curva Parabolica al posto della vecchia doppia curva di porfido nel 1955, lo stesso anno in cui si corse per la prima volta sul rifatto anello di alta velocità, poi abbandonato, e poi con l’introduzione delle chicane, a poco dopo la metà del rettilineo dei box che inizialmente arrivava fino alla curva grande, ora curva Biassono, poi alla curva della Roggia e infine alla curva Ascari, precedentemente detta curva del Vialone. Queste chicane, pur snaturandone in nome della sicurezza le caratteristiche originali, rimaste bene o male quasi intatte fino al 1971 (anno della gara più bella della storia della Formula 1 con i primi cinque che tagliarono il traguardo nello spazio di 61 centesimi), non hanno tolto al circuito di Monza la nomea di vero e proprio “tempio della velocità”. E a dispetto di tutti coloro che già pochi anni dopo la sua nascita ne volevano la morte, a 100 anni è più vivo che mai.

lunedì 29 agosto 2022

Expected rimorchi (o colpi di fulmine reciproci)

Dopo un bel po' di tempo voglio tornare a raccontare su questo spazio la mia eccitante vita personale, che se possibile è ancora più entusiasmante di quella lavorativa. Avete presente quella statistica del calcio chiamata "expected goals", e cioè quanti gol ci si aspetta che una determinata squadra possa segnare in una determinata partita? No? Beh, non vi siete persi niente. È una statistica completamente inutile, se non forse per chi scommette. Ma c’è un'altra statistica ancora più inutile, nel senso che il risultato finale è scontato, perché è sempre lo stesso. Questa statistica riguarda me, ed è chiamata "expected rimorchi", oppure "expected colpi di fulmine reciproci".

Ormai da quasi tre anni esco di casa sempre più raramente, visto che da gennaio 2020 non faccio più trasferte sciistiche e visto che né nel 2020 né quest’anno sono riuscito a passare nemmeno un giorno al paesello durante l’estate. Pertanto, tolto qualche ritrovo estemporaneo con i pochi amici che mi sono rimasti fedeli e tolte le visite settimanali a mio papà, anch'esse diradatesi paurosamente negli ultimi due mesi a causa dei continui guai alla macchina, il massimo della libidine per me è la puntatina bisettimanale all’Esselunga. E qui entra in scena la statistica di cui sopra.

Di solito, il numero di questi potenziali rimorchi, o colpi di fulmine reciproci che dir si voglia, non supera i cinque-sei casi al giorno, se proprio va di extralusso arriviamo a dieci-dodici. Questa mattina però, complice la macchina che da più di una settimana è nelle mani del meccanico, grazie ai due passi per arrivare alla fermata dell’autobus, al percorso in autobus, a un’altra passeggiatina per vedere se la mia macchina esisteva ancora o se l’avevano rottamata dalla disperazione, a un’altra passeggiatina per raggiungere l’Esselunga, al giro di tutti i reparti dell’Esselunga per fare la spesa e poi al ritorno a casa in autobus, con annesse passeggiatine Esselunga-fermata di partenza e fermata di arrivo-casa, il numero di potenziali rimorchi o colpi di fulmine reciproci ha raggiunto la ragguardevole cifra di 24, che non avevo mai raggiunto e che probabilmente non raggiungerò mai più.

Come spiegare questa cifra? Forse perché sono tornate tutte dal mare e si sono rituffate immediatamente nella vita e nella spesa di città girando per strada e al supermercato in abiti ancora quasi marinareschi. E questa quota sarebbe potuta essere addirittura di 28 se 3 non fossero state accompagnate da marito o fidanzato, e una, forse la più bella di tutte, era col bambino piccolo nel passeggino. Quindi già in questi quattro casi il rimorchio o colpo di fulmine reciproco era irrealizzabile, ma anche negli altri 24 il numero di realizzazioni è stato sempre lo stesso: zero assoluto. Di queste 24, due soltanto mi hanno lanciato uno sguardo prolungato, probabilmente di compatimento, e una uno sguardo dello stesso tono ma pure un po’ distratto mentre si accendeva una sigaretta. Le altre, come se non esistessi.

Avete capito adesso perché questa statistica è ancora più inutile degli expected goals? Perché la percentuale di realizzazione è sempre la stessa: ZERO! E avete capito adesso perché la mia vita personale è se possibile ancora più entusiasmante di quella lavorativa (che di proposito non voglio più raccontarvi), senza contare che ormai avere la macchina è un optional e che a settembre dovrò pure montare l’impianto gpl per circolare anche solo nelle straducole della periferia dove vivo all’interno del comune di Milano? Quindi, visto che la percentuale realizzativa è nulla, meglio avere gli "expected rimorchi" o "expected colpi di fulmine reciproci" su Instagram. Tanto lì si sa già che il risultato finale, rispetto alla vita reale, non cambia. Ma almeno lì, se fai un complimento sincero, non vedendoti in faccia, in genere lo accettano.

P.S: mentre stavo finendo di scrivere questo sproloquio mi hanno telefonato avvisandomi che la macchina è pronta, quindi adesso esco, e tenete presente che quella cifra di 24 potrebbe anche aumentare.

giovedì 25 agosto 2022

Folle, ultraveloce, leggendario: il vecchio Spa-Francorchamps di 14 km

Tutti si ricordano del vecchio Nürburgring, il mitico Nordschleife lungo quasi 23 km, la pista più difficile e più tecnica della storia dell'automobilismo, ma il motivo per cui tutti se lo ricordano è il gravissimo incidente di Niki Lauda dell'1 agosto 1976, che di fatto decretò l'inizio della fine di questo leggendario circuito, sacrificato dopo quel giorno sull'altare della sicurezza. Sono sicuro invece che molti meno si ricordano di un tracciato altrettanto leggendario: il vecchio circuito di Spa-Francorchamps, lungo poco più di 14 km, più del doppio di quello attuale.

Se il vecchio Ring era un concentrato inimitabile, e pericoloso, di curve lente e veloci, di saliscendi, tanto da renderlo il tracciato più completo e difficile di tutti i tempi, il vecchio Spa era un circuito ultraveloce e, se possibile, ancora più pericoloso. Peraltro i luoghi dove sono i due tracciati nella loro versione attuale, uno in Germania e uno in Belgio, sono distanti solamente poco più di 100 km e sono, anzi, erano perché il nuovo Nürburgring ne è fuori, entrambi immersi in una foresta: il Nordscheife, non a caso noto come l'”inferno verde", in quella dell'Eifel, il circuito vallone in quella delle Ardenne.

Ma veniamo, appunto, al vecchio tracciato di Spa-Francorchamps. Fu ideato su strade aperte al traffico nel 1920 da due signori chiamati Jules de Thier e Henri Langlois Van Ophem, la cui idea era di organizzare corse automobilistiche su un percorso che collegava i paesi di Stavelot, Malmedy e Francorchamps, quest'ultimo frazione di Stavelot a circa 5 km dal tornante La Source, una delle poche curve del vecchio tracciato sopravvissute anche oggi, e a circa 10 km dalla città di Spa, da qui pertanto la definizione di circuito di Spa-Francorchamps.

Il layout originale era di 15 km e aveva un paio di differenze fondamentali rispetto a quello che ospiterà 18 Gran Premi iridati dal 1950 al 1970. La prima era che subito dopo la linea del traguardo, invece di imboccare quello che è attualmente il tratto più mitico della Formula 1, la sequenza sinistra-destra-sinistra dell'Eau Rouge-Raidillion, si deviava con una secca curva a sinistra verso un tornantino chiamato Virage de l'Ancienne Douanne, per poi ricongiungersi alla strada proveniente da Raidillion sul rettilineo del Kemmel. La seconda riguardava la zona di Stavelot, dove in seguito vennero affrontate due curve verso destra molto veloci, invece in origine il circuito deviava in un breve tratto tortuoso. Su questo layout si disputarono dal 1924 la 24 ore di Spa e dal 1925 al 1937 sette edizioni del Gran Premio del Belgio.

Il 1939 fu l'anno in cui comparve per la prima volta l'Eau Rouge-Raidillion, poi, nel 1947, fu modificato anche il tratto di Stavelot, così il circuito divenne più corto di circa un chilometro quello che era in origine e decisamente più veloce, tanto da diventare nel corso degli anni il più veloce della Formula 1, anche di quello francese di Reims o di Monza dell'era pre-chicane. Un circuito che era una vera sfida alla morte per quei veri e propri cavalieri del rischio che erano i piloti automobilistici di allora. I punti pericolosi, dove si andava a velocità supersoniche, e con zero vie di fuga, erano innumerevoli, da Burnenville alla curva di Malmedy alle vecchie curve di Blanchimont, a quella de La Carriere. Ma soprattutto, c'era il tratto che può essere definito il più pericoloso di tutta la storia della Formula 1: la esse di Masta, posta all'incirca a metà percorso in mezzo a due lunghissimi rettilinei, uno proveniente da Malmedy e uno che conduceva a Stavelot.

Consisteva in una combinazione sinistra-destra da percorrere a oltre 300 km/h in mezzo a un gruppo di case poste appena oltre il ciglio della strada. Tutto il circuito però, essendo stato concepito su strade ordinarie, era caratterizzato dalla presenza a bordo pista non solo di case, ma anche di pali telegrafici contro cui purtroppo non era inusuale andare a schiantarsi, per non parlare dei fossati in cui potevano finire le vetture. Se ci mettiamo poi il fatto che in quella zona c'è sempre stata la variabile pioggia, si può capire quanti pericoli comportasse gareggiare sul vecchio Spa-Francorchamps: oggi invece si è arrivati all'eccesso opposto, con partenze o intere gare dietro alla safety-car sotto il diluvio, come accaduto l'anno scorso proprio a Spa-Francorchamps, il punto più basso di tutta la storia della Formula 1.

Un circuito, il vecchio Spa, composto di una trentina di curve, fatto per supereroi, sul quale qualcuno ci ha lasciato la vita, come Chris Bristow e Alan Stacey, entrambi morti durante il tragico Gran Premio del 1960, nelle prove del quale Stirling Moss si fratturò le gambe in un incidente che gli compromise per l'ennesima volta l'assalto a un titolo mondiale che non riuscì mai a conquistare. Qualcuno ci ha anche chiuso la carriera in Formula 1, come Mike Parkes nel 1967, e qualche altro ha rischiato di chiudercela, come Jackie Stewart, schiantatosi sotto il diluvio a Masta nel 1966 ed estratto dalla vettura con la tuta impregnata di benzina.

Fu proprio lo scozzese, che odiava il circuito belga proprio come il suo connazionale Jim Clark, che pure ci vinse quattro volte consecutive, due delle quali sotto diluvi memorabili, a guidare la crociata contro Spa-Francorchamps. Nel 1969 la gara infatti non fu disputata, la Formula 1 vi tornò nel 1970 per l'ultima volta con quel layout e a vincere fu il messicano Pedro Rodriguez a oltre 240 all'ora di media. Poi, dato che le misure di sicurezza introdotte per l'occasione, tra cui una chicane a Malmedy, furono ritenute insufficienti, il Gran Premio del Belgio fu ospitato prima da Nivelles e poi da Zolder, e tornò a Spa-Francorchamps solo nel 1983 sul circuito rinnovato e dimezzato, inaugurato dal Gran Premio motociclistico del 1979 e molto simile a quello di oggi, per poi essere di nuovo la sede fissa della gara a partire dal 1985. Su quello vecchio invece si continuò a correre la 1000 km di Spa fino al 1975 e il Gran Premio motociclistico e la 24 ore fino al 1978, poi basta.

Il nuovo circuito è uno dei pochi tracciati veri rimasti in Formula 1, e infatti viene messo in discussione ogni anno, così come altri luoghi storici del Circus come Monza, Silverstone e persino Montecarlo, eppure con quello vecchio ha in comune ben poco: solo la terribile Eau Rouge-Raidillon e il tornantino La Source, che sul vecchio tracciato era l'ultima curva del giro mentre adesso è la prima. Esclusa la zona di Blanchimont, che però è stata completamente rifatta, comprese le varie versioni della chicane Bus Stop, tutto il resto non c'è più. O meglio, c'è ancora, ma ovviamente solo per la viabilità di tutti i giorni. E solo per la curiosità di quelli, come il sottoscritto, che si vanno a vedere su Youtube come sono adesso le strade che lo componevano, e che potete vedere nel video sottostante a cura del bellissimo sito circuitsofthepast.com, che tiene viva la memoria dei circuiti ormai dimenticati e abbandonati dalla Formula 1. Come quello di Spa-Francorchamps versione 14 km.



sabato 7 maggio 2022

Il mio ricordo di Gilles 40 anni dopo


Quando Gilles Villeneuve arrivò alla Ferrari io ero invece appena arrivato, dall’alto dei miei 9 anni, a seguire la Formula 1 in tv. Devo dire che molto spesso, specialmente il primo anno, dall’alto della mia grande saggezza di novenne-decenne, l’ho considerato un folle per gli incidenti che faceva e per i rischi che si prendeva e faceva prendere agli altri. Insomma, era esattamente il contrario del mio idolo Niki Lauda, che da Maranello aveva appena divorziato e di cui Villeneuve aveva preso il suo posto.

Poi Gilles. oltre che di distruggere macchine, cominciò a dimostrare di essere capace di vincere e allora cominciai a esaltarmi per lui. Le punte massime di esaltazione arrivarono, ovviamente, col duello con Arnoux a Digione nel 1979 e con le incredibili vittorie di Montecarlo e Jarama nel 1981, quando specialmente nella seconda occasione dimostrò le sue innate capacità di guida tenendosi dietro quattro belve scatenate per moltissimi giri.

Come direbbe Marc Gené, “Mai visto questo”, e avrebbe ragione: cose come quelle di Digione e di Jarama non si sono purtroppo mai più viste nella storia della Fprmula 1. Non solo, il duello Villeneuve-Arnoux non sarebbe più possibile perché alla prima toccata di ruote e alla prima escursione fuori pista sarebbero scattate tutte le assurde sanzioni che infestano il regolamento del Circus di oggi.

Quando poi Gilles si schiantò a Imola nel 1980, in un modo molto simile a quello per il quale nel 1994 morirà Roland Ratzenberger, cominciai a pensare che fosse immortale, perché usciva da qualsiasi tipo di incidente senza un graffio. E invece, quel maledetto 8 maggio di 40 anni fa, mio papà venne a prendermi alla scuola di musica dove mi faceva inutilmente studiare e poi andammo a giocare a ping pong. Mentre palleggiavamo mi disse che Villeneuve aveva avuto un incidente ed era già praticamente morto.

Il mondo mi crollò addosso. Pensai che stesse scherzando e invece i telegiornali della sera confermarono purtroppo la notizia. Da quel momento non ho mai rimpianto abbastanza Gilles, intuendo che uno aggressivo ma corretto come lui, nel senso che non avrebbe mai speronato apposta un avversario, non ci sarebbe più stato, e la successiva storia della Formula 1, con alcuni grandi campioni che però erano anche estremamente scorretti, l’ha ampiamente dimostrato.

Ma Gilles era anche uno leale e lo dimostrò a Monza nel 1979, quando coprì le spalle al suo compagno di squadra Jody Scheckter aiutandolo a vincere davanti a migliaia di tifosi impazziti quel titolo mondiale che lui non avrebbe mai potuto vincere. Questa lealtà gli si ritorse contro a Imola nel 1982, quando Didier Pironi, che lui credeva suo amico, lo batté dopo un duello fratricida ignorando le segnalazioni (peraltro ambigue) esposte dai box della Ferrari di andare piano per non prendersi dei rischi e che il francese interpretò a suo modo.

Quello sgarbo Gilles non lo mandò giù e, piaccia o non piaccia, fu la genesi della tragedia di Zolder di 13 giorni dopo. Salut Gilles. Se ho amato e amo ancora la Formula 1 malgrado non sia più nemmeno la lontana parente di quella dei tuoi tempi in quanto a pathos, oltre che a Niki Lauda lo devo anche a te. A proposito, non prendere a ruotate Niki, mi raccomando: potrebbe aversene a male...

martedì 8 febbraio 2022

Giochi olimpici tutto l'anno, per favore!

“Buona linea!” E’ il grido che mi è risuonato nelle orecchie nell’ultima settimana. E’ quello di Stefania Constantini. Sì, proprio così, Constantini, non Costantini, come credevo invece si scrivesse il suo cognome la prima volta che l’ho incrociato nove mesi fa. Lei, 22enne di Cortina d’Ampezzo, è stata protagonista insieme ad Amos Mosaner, 26enne trentino di Cembra, di una delle imprese più incredibili della storia dello sport italiano: la vittoria nel torneo olimpico del doppio misto del curling a Pechino. Un oro frutto di un movimento già di per sé microscopico ma che lo è soprattutto se lo si confronta con quelli di alcune grandi potenze della disciplina che questi due meravigliosi ragazzi hanno battuto. 16 anni fa il curling sembrava essere esploso durante i Giochi di Torino 2006, così come il pattinaggio di velocità su pista lunga, illuminato dalle imprese di Enrico Fabris. Ma poi questi sport, e non solo loro, sono ripiombati nel dimenticatoio, come tantissimi sport olimpici, anche estivi ma soprattutto invernali: i Giochi della neve e del ghiaccio per la stragrande maggioranza degli italiani rimangono fortemente di nicchia, e lo sfalsare la data rispetto ai Giochi estivi a partire da Lillehammer 1994 ha ulteriormentte peggiorato le cose. E la colpa è soprattutto dei media, di cui faccio parte, ma anche delle federazioni: sono poche quelle capaci di promuovere i loro sport nel modo giusto, e quelle degli sport invernali brillano per la loro incapacità di farlo, anzi, fanno emergere vicende squallide come quella nello sci alpino maschile degli ultimi giorni, da qualunque parte stia la ragione, oppure gli eterni attriti tra un’atleta leggendaria che ovunque sarebbe venerata come Arianna Fontana e la sua federazione. Il trionfo di Stefania e Amos è una di quelle storie che possono uscire solo dai Giochi olimpici, che, pur con tutti i loro grandi difetti, rimangono l’evento più importante e visionario che l’umanità abbia mai inventato. E le imprese dei nostri atleti, ma anche le avventure e le ambizioni di tutti i nostri atleti che vi partecipano sognando una medaglia olimpica, sono l’unica cosa che mi rendono ancora fiero di essere italiano. Per favore, Giochi olimpici tutto l’anno allora. E meno calcio. E soprattutto zero politica. Soprattutto quell’infame politica che ha rovinato il nostro meraviglioso paese negli ultimi trent’anni e che è sempre pronta a tentare di inquinare lo sport e i rapporti tra atleti che da amici rischiano di diventare nemici.

lunedì 12 luglio 2021

The Day After

Foto: Adnkronos

Alcune considerazioni sparse su una giornata che poteva essere ancora più epocale di quello che è stata, e per me lo è stata comunque, dato che per la prima volta ho visto un italiano in finale a Wimbledon e una vittoria della Nazionale di calcio agli Europei. Non a caso la data è l’11 luglio, lo stesso giorno della vittoria del Mundial ’82. Le mie considerazioni saranno molto terra-terra, al contrario di quelle che fanno certi grandi giornalisti tuttologi che un giorno scrivono che Mancini è stato imbrigliato tatticamente da Luis Enrique e poi, il giorno della vittoria, saltano sul carro del vincitore dicendo che ha fatto tutto alla perfezione.

Atto primo. Tutti hanno detto che Matteo Berrettini esce a testa alta dal torneo di Wimbledon e dalla finale. Verissimo, e dobbiamo solo dirgli grazie per essere stato il primo tennista di casa nostra, donne comprese, nella finale di un singolare del torneo più importante del mondo. Tuttavia a me più di un rimpianto dopo quel primo set vinto rimane. Avrei voluto vederlo più aggressivo nei game di risposta e negli scambi dal fondo, ma è chiaro che stava giocando con la macchina sparapalline più efficace e noiosa di tutta la storia del tennis e quindi non era per nulla facile. Più in generale però avrei voluto vederlo più cattivo agonisticamente, tanto più perché era alla sua prima finale e non aveva niente da perdere. Ecco, io continuo ad avere l’impressione che un esponente della nuova generazione di tennisti, che avrebbero già dovuto vincere qualcosa di molto importante (Thiem, vincitore a New York ma solo per un incredibile autogol di Djokovic, Tsitsipas, Zverev, Medvedev, Shapovalov, per non parlare di Kyrgios, ma qui si entra nel campo psicanalitico pesante) quando incontra uno dei tre più vincenti della storia del tennis (Federer, Nadal e Djokovic), sia sempre un po’ in soggezione. Cosa che fino a 20-30 anni fa non accadeva quando un giovane rampante incontrava uno dei più forti del mondo. Era un altro tennis, è vero, tecnicamente e soprattuto come preparazione fisica, e si arrivava più presto a vincere dei Major, ma forse per questo i fuoriclasse di una volta avevano la sfrontatezza che i tennisti di oggi, giovani ma non così giovani, non hanno. Purtroppo Berrettini non fa eccezione a questa regola che vale per i tennisti contemporanei e sinceramente non vedo nemmeno tutti quei margini di miglioramento che tutti sono convinti che ci saranno: merita di stare tra i primi del mondo ma comincerà a vincere, forse, quando Djokovic, Nadal e Federer (che di fatto si sta già preparando) appenderanno racchetta e scarpe al chiodo. Ma ovviamente spero di sbagliarmi.

Atto secondo. In un paese composto da 60 milioni di commissari tecnici della Nazionale italiana non ricordo un ct che li abbia messi tutti d’accordo come Roberto Mancini, neanche Bearzot, che fino al primo gol di Rossi in Italia-Brasile veniva massacrato da tutti, ma proprio da tutti. Il trionfo europeo è soprattutto del Mancio, che ha risollevato e ridato gioco a una Nazionale che tre anni fa sembrava morta e sepolta. Non ricordo che qualcuno si sia lamentato delle formazioni titolari che ha messo in campo o delle sostituzioni che ha fatto, forse perché tutti sapevano che chi giocava, o chi entrava dalla panchina, si sarebbe fatto trovare pronto e avrebbe contribuito alla causa, vedi Bernardeschi in occasione dei rigori contro la Spagna e l’Inghilterra. Mancini ha costruito una Nazionale unita come forse nessun’altra, la cui forza è quella del gruppo, non quella dei singoli: solo Donnarumma è un autentico fuoriclasse, e forse, ma solo forse, lo sono anche Federico Chiesa, Jorginho e Spinazzola, per il resto alzi la mano chi considera, per esempio, Bonucci e Chiellini superiori a Cannavaro e Nesta, per non parlare del confronto quasi imbarazzante con Baresi e, prima ancora, con Scirea. Mancini è lo stesso, ma ben pochi se lo ricordano, che ha riportato al titolo della Premier League il Manchester City dopo 44 anni di digiuno, anche se da qualche anno sembra che a vincere il campionato inglese tra gli allenatori italiani sia stato solo Claudio Ranieri e non anche Ancelotti e Mancini prima di lui e dopo di lui Conte, solo perché per un anno, e solo per un anno, gli è andato tutto bene con una squadra di scappati di casa. Non amo autocitarmi, e non ho nemmeno le doti divinatorie dei grandi giornalisti tuttologi fini analisti di cui sopra, ma dalle storie che ho pubblicato subito dopo le prime partite di questi Europei contro la Turchia e contro la Svizzera e che potete leggere in fondo a questo post avevo intuito, pur non sbilanciandomi in pronostici, che questa Nazionale poteva andare molto lontano, più lontano ancora di quella dei Mondiali di Italia 90, che rimaneva per me l'ultima grande nazionale che abbia visto prima di questa. Sono contento, per una volta, di averci indovinato.

P.S.: e ora i Giochi di Tokyo, che spero siano un’altra grande avventura per lo sport italiano.


venerdì 1 gennaio 2021

Il 2020 annus horribilis? Per me c'è stato di peggio...

Cercherò di essere sintetico e di raccontare solo le cose positive tra le tante negative che ci sono state nell’anno che se n’è appena andato e che tutti In Italia, chi più chi meno, abbiamo dovuto sopportare, molta gente piangendo anche la morte di persone care. Perché il 2020 non è stato un annus così horribilis per me: per esempio il 2018 e i primi undici mesi del 2019 sono stati molto peggiori, per non parlare del 2016, il peggiore di tutta la mia vita. Nel 2020 c’è stato il lockdown ma io è dal 2013 che lavoro da casa, quindi posso dire di esserne stato un precursore seriale. Nel 2020 ho imparato a stare vicino, anche se da lontano, a chi mi merita e a chi mi stima e mi vuole bene, persone che già sapevo amiche e persone che ho conosciuto meglio o che ho ritrovato, ma anche a stare lontano da chi non ha fatto altro che farmi la guerra anche quando, da ingenuo quale sono, non lo sapevo, o da chi, semplicemente, mi diceva che ero bravo ma in realtà non gliene fregava niente di me. Nel 2020 ho cercato di liberare la mia anima dai fantasmi che l’hanno sempre popolata: non è un processo facile, perché sono un pessimista naturale, ma diciamo che negli ultimi tredici mesi la mia autostima ha provato a crescere dentro di me, proprio io che l’ho sempre combattuta, ed è cresciuta ulteriormente nell’ultimo mese. Come ho già detto a Natale, ora sono più sereno, e non improvvisamente da oggi o da una settimana o da un mese, ma mi accorgo di esserlo diventato gradualmente, appunto, da un anno o poco più. E ora mi sto perfino quasi convincendo che chi semina odio o chi si crede dio in terra raccoglie tempesta, mentre chi si fa un mazzo tanto restando sempre sull’orlo del precipizio senza avere la minima certezza di potersi salvare dalla caduta alla fine forse può venire premiato. Auguro a me stesso che il 2021 rinsaldi in me questa convinzione e mi auguro anche, oltre che di continuare a riuscire a convivere coi miei acciacchi fisici, in parte dovuti al problema che avevo fino a poco più di due anni fa (e chi mi conosce sa di cosa sto parlando), di poter tornare a vedere le facce amiche di sempre che l’anno appena concluso mi ha negato, comprese quelle di quasi tutti i miei familiari, e di rivedere anche i luoghi a me cari, come il mio paesello, che nel 2020 per la prima volta dopo quasi 50 anni non sono riuscito a vedere neanche per un solo giorno. Buon 2021 a tutti.